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Il modding è una pratica diffusa nel mondo dei videogiochi, che permette agli utenti di personalizzare software e dispositivi elettronici. Ma fino a che punto è legale modificare un videogioco senza violare il diritto d’autore? La Direttiva 2009/24/CE protegge il codice sorgente e oggetto dei software, ma non le idee e i principi di funzionamento. Proprio su questa distinzione si è pronunciata di recente la Corte di Giustizia dell’Unione Europea (C-159/23), stabilendo che modificare la memoria RAM di un gioco non costituisce una violazione del copyright.
Questa sentenza segna un precedente importante: esiste davvero una “libertà di modding”? Quali sono i rischi e le opportunità per sviluppatori e utenti? Scopriamo insieme cosa cambia per il futuro della personalizzazione nei videogiochi.
Il modding, abbreviazione di “modification“, è la pratica di personalizzare e modificare software, videogiochi e dispositivi tecnologici. Nato come una forma di customizzazione estetica e hardware per i PC, oggi il modding si è evoluto, diventando un fenomeno di grande impatto nel mondo dei videogiochi e della tecnologia.
Nel settore videoludico, il modding permette agli utenti di creare nuove mappe, cambiare regole di gioco, modificare la grafica e persino aggiungere contenuti non previsti dagli sviluppatori. Questa libertà creativa ha dato vita a vere e proprie community di modder, capaci di trasformare un gioco con aggiornamenti, miglioramenti o versioni alternative. Alcuni titoli, come quelli di Valve e Bethesda, hanno persino integrato strumenti ufficiali per incentivare queste personalizzazioni.
Anche nel mondo dei dispositivi elettronici, il modding è molto diffuso. Un esempio è la modifica del firmware di smartphone e consolle, che consente di sbloccare funzionalità avanzate o personalizzare l’interfaccia del sistema operativo. Tuttavia, mentre nei software open source queste pratiche sono generalmente accettate, nei sistemi proprietari il modding è spesso ostacolato da restrizioni legali e protezioni tecnologiche (abbiamo parlato di questo licenze aperte anche qui: “Fair Source: la nuova frontiera delle licenze software?” di A. Canella).
Ma fino a che punto è lecito modificare un software senza violare il diritto d’autore? Quando la personalizzazione si trasforma in un’infrazione? La recente sentenza C-159/23 della Corte di Giustizia dell’Unione Europea (CGUE) ha chiarito questi confini, affrontando un caso che ha fatto molto discutere.
La modifica di un software è legale solo entro i limiti stabiliti dal diritto d’autore europeo. La Direttiva 2009/24/CE tutela i programmi per elaboratore, ma questa protezione riguarda esclusivamente il codice sorgente e il codice oggetto.
Cosa sono?
Questi elementi sono protetti dal diritto d’autore perché il processo di scrittura del codice è un’attività creativa, paragonabile alla stesura di un’opera letteraria. Tuttavia, la normativa non tutela le idee, i principi o gli algoritmi su cui si basa un programma, perché considerati elementi funzionali e non espressioni creative (approfondisci: “Gli strumenti di tutela legale del software” di M. Manca e “La registrazione del software in SIAE: tra tutela legale e pianificazione fiscale” di A. Canella).
L’articolo 4 della Direttiva conferisce al titolare del software il diritto esclusivo di autorizzare o vietare qualsiasi modifica del programma (vedi anche: “Il Tribunale di Bologna sul plagio parziale di un software” di M. Manca).
Ma se un intervento non modifica il codice sorgente o oggetto, è comunque una violazione? Ad esempio, se una modifica agisce sulla memoria RAM durante l’esecuzione del software, ma senza alterarne la struttura, rientra ancora nel controllo del titolare del diritto d’autore?
Su questa questione si è pronunciata di recente la Corte di Giustizia dell’Unione Europea (C-159/23), chiarendo i confini tra personalizzazione lecita e violazione del diritto d’autore.
La Corte di Giustizia dell’Unione Europea (CGUE) è stata chiamata a pronunciarsi su una controversia tra una nota casa produttrice di videogiochi e una società specializzata in software di personalizzazione. Il caso C-159/23 riguardava un programma che permetteva ai giocatori di modificare temporaneamente alcune dinamiche di gioco, come ottenere vite infinite, sbloccare funzionalità nascoste o rimuovere restrizioni imposte dagli sviluppatori.
La casa produttrice sosteneva che queste modifiche violassero il diritto d’autore sancito dalla Direttiva 2009/24/CE, poiché alteravano l’esperienza di gioco senza autorizzazione. Secondo questa tesi, anche se il software di modding non interveniva direttamente sul codice sorgente o oggetto del videogioco, modificava comunque il funzionamento previsto dagli sviluppatori, interferendo con il prodotto originale.
La società di software, invece, difendeva la legittimità del proprio strumento, sottolineando che le modifiche erano transitorie e non intaccavano in modo permanente la struttura del gioco. Il software operava infatti sulla memoria RAM della consolle, una memoria volatile che registra dati solo durante l’esecuzione del gioco, senza alterare il codice originale in modo duraturo.
La CGUE ha respinto le accuse di violazione, chiarendo un principio fondamentale: il diritto d’autore protegge il codice sorgente e il codice oggetto, ossia le componenti espressive e creative del software. Tuttavia, non tutela le idee, i principi di funzionamento o le modifiche che si limitano a influenzare il comportamento del programma senza alterarne la struttura sottostante.
Poiché il software contestato agiva solo a livello di memoria temporanea – modificando variabili che regolavano elementi di gioco, come il numero di vite o le opzioni disponibili – la Corte ha stabilito che tale intervento non rientra nella protezione garantita dalla Direttiva 2009/24/CE. In altre parole, modificare la RAM durante l’esecuzione di un gioco non equivale a una violazione del diritto d’autore, poiché non comporta una riproduzione o trasformazione permanente del programma protetto.
Questa sentenza crea un precedente importante, distinguendo chiaramente tra modifiche che incidono sulla struttura creativa di un software, tutelate dal diritto d’autore, e interventi che agiscono solo a livello di memoria temporanea, che rimangono leciti.
La sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea (CGUE) solleva una questione centrale: gli utenti hanno il diritto di modificare i software e i dispositivi che acquistano, o il diritto d’autore impone limiti invalicabili?
Da un lato, i produttori di software hanno un interesse legittimo a tutelare il proprio lavoro creativo, prevenendo manipolazioni non autorizzate che potrebbero compromettere l’esperienza d’uso originale o facilitare pratiche illecite come la pirateria. Dall’altro, gli utenti e le community di modder rivendicano la possibilità di personalizzare i software, specie quando gli interventi non alterano in modo permanente il codice protetto dal diritto d’autore.
Con questa decisione, la CGUE ha chiarito un punto chiave: il diritto d’autore protegge esclusivamente il codice sorgente e il codice oggetto di un software, ovvero le componenti che derivano dall’attività creativa dello sviluppatore. Le idee, i principi di funzionamento e le modifiche temporanee sulla memoria RAM non sono protette, poiché non costituiscono un’espressione creativa, ma solo un meccanismo tecnico.
Questa interpretazione evita che il diritto d’autore si trasformi in un monopolio sulle idee, lasciando più spazio all’innovazione e alla sperimentazione tecnologica. Tuttavia, alcuni interrogativi restano aperti:
Esiste, quindi, una vera “libertà di modding“? La risposta non è affatto univoca. Il modding può essere una forma di espressione e innovazione, ma solo se si muove entro i limiti della normativa sul diritto d’autore. La sfida per il futuro sarà trovare un equilibrio tra protezione della proprietà intellettuale e libertà di sperimentazione, affinché il modding resti una forma di espressione creativa, e non un abuso.
Margherita Manca