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Dall’analfabetismo artificiale all’ibridazione creativa: cosa resta del Copyright nell’era dell’AI

Pubblicato in: Proprietà Intellettuale
di Arlo Canella
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La creatività è cambiata. L’intelligenza artificiale generativa non è più una novità tecnica, ma una forza che ridefinisce ruoli, competenze e diritti di chi crea. Non basta più conoscere i software: serve capire il funzionamento dell’AI, sapere quali opere produce, chi ne è titolare e quali diritti sono in gioco. Questo articolo esplora il nuovo scenario in cui si muovono artisti, designer, autori e imprese culturali, tra rischi giuridici e nuove opportunità. Dall’analfabetismo artificiale all’ibridazione creativa, una riflessione su cosa resta – e cosa cambia – del Copyright nell’era dell’AI.

La creatività non è più quella di prima

L’intelligenza artificiale generativa ha già riscritto le regole del mercato. Non si tratta più di previsioni o scenari futuribili: il cambiamento è già avvenuto. Oggi, l’AI non solo supporta il lavoro creativo, ma in molti casi lo produce direttamente. Illustrazioni, testi, musiche, sceneggiature: contenuti che fino a ieri richiedevano l’intervento umano, ora possono essere generati da un algoritmo in pochi secondi. Il risultato? Un’accelerazione senza precedenti nei processi di produzione e una profonda riconfigurazione dei mestieri creativi.

Questo scenario ha conseguenze dirette su chi lavora nella cultura: artisti, editori, pubblicitari, designer, autori, fotografi, architetti. Il loro lavoro è oggetto di ibridazione con strumenti digitali intelligenti che non si limitano più a eseguire, ma interpretano, anticipano, decidono. L’AI non è un semplice strumento come Photoshop o un sintetizzatore: è un sistema che apprende dai dati e genera contenuti nuovi, talvolta sorprendenti, spesso indistinguibili da quelli umani.

È evidente quindi che non si può più parlare di AI come di un’opzione da valutare con calma.

Chi lavora in questi settori è già immerso in un mercato dove l’intelligenza artificiale è protagonista. E questo crea una tensione tra potenziale e pericolo: da un lato, l’AI può moltiplicare la produttività e aprire nuovi linguaggi; dall’altro, può disintermediare l’autore umano e rendere incerti i confini del diritto d’autore (approfondisci: L’AI Act ha ucciso il Copyright? Riflessioni sul plagio nell’era dell’AI – Canella Camaiora). 

Un cambiamento così profondo richiede una nuova consapevolezza. Non basta aggiornarsi sui software o imparare a usare un nuovo tool. Serve un salto culturale: comprendere la logica dei sistemi intelligenti, capire come lavorano, dove prendono i dati, quali conseguenze producono, chi è titolare delle opere che ne derivano. E, soprattutto, quali diritti – se esistono – spettano a chi crea e a chi insegna alla macchina a creare nel modo giusto.

Un nuovo “analfabetismo artificiale”

Se in passato si parlava di alfabetizzazione digitale, oggi il problema è più profondo: siamo entrati nell’epoca dell’analfabetismo artificiale. Un tempo bastava saper usare un computer o un software. Ora, invece, anche chi lavora nella tecnologia spesso non comprende davvero ciò che l’intelligenza artificiale fa, come lo fa, né perché lo fa.

Nel mio precedente contributo Intelligenza Artificiale: strumento oppure “oracolo” tecnologico? – Canella Camaiora riflettevo su questo nuovo approccio alla tecnologia. L’AI non è più un semplice mezzo neutro, ma un soggetto semi-autonomo, capace di produrre contenuti e decisioni che appaiono quasi “ispirate”, talvolta sorprendenti, altre volte decisamente scarse e insensate. È ciò che si definisce mistero algoritmico: l’impossibilità di controllare fino in fondo la logica delle reti neurali e dei sistemi generativi.

Anche per questo può risultare fuorviante paragonare l’AI a un semplice “pennello” (come ha fatto il Tribunale di Pechino), poiché in molti casi non è più l’uomo a guidare la macchina, ma la macchina a proporre soluzioni, stili, sintesi e forme espressive. Il creativo diventa un curatore, un editor, un “direttore d’orchestra” — ma non necessariamente un autore.

Questa opacità tecnologica ha conseguenze molto pratiche: non è più sufficiente conoscere superficialmente lo strumento. È indispensabile conoscerlo a fondo: quali dataset usa, da dove vengono i dati, con quali autorizzazioni. Nell’articolo ormai molto risalente Intelligenza Artificiale: il silenzioso sfruttamento delle opere degli autori sottolineavo con enfasi la centralità della questione: milioni di opere protette da diritto d’autore sono state utilizzate per “allenare” le AI senza consenso né compenso per gli autori umani. Un caso che torna alla ribalta con il processo statunitense contro Meta, relativo all’addestramento della sua AI: «Il problema è che la gente non si rende conto che se prendiamo in licenza un singolo libro, non potremo poi orientare la questione sul fair use» – ha dichiarato uno dei responsabili dello sviluppo. Ne ho parlato anche in un post su Linkedin.

In questo scenario, chi non possiede gli strumenti concettuali e giuridici per orientarsi è destinato a subire l’AI più degli altri. Il rischio, come ho illustrato in L’IA funziona davvero come il cervello umano?, è quello di attribuire all’AI una coscienza che non ha, oppure, al contrario, trattarla come un tool qualsiasi, senza coglierne l’impatto sistemico. In entrambi i casi, si resta fuori dalla partita.

Chi crea ha bisogno del diritto, ora più che mai

In un’epoca in cui è possibile generare un dipinto, un racconto o una campagna pubblicitaria in pochi clic, il confine tra creatività e plagio diventa sempre più labile. Ma il diritto non è scomparso: al contrario, è diventato indispensabile. Chi opera nei settori creativi non può più ignorare le implicazioni legali del proprio lavoro.

La proprietà intellettuale – spesso percepita come un ambito specialistico e distante – è invece il primo strumento di tutela per autori, creativi e imprese culturali. I tribunali stanno iniziando a interrogarsi seriamente sulla protezione delle opere generate (in tutto o in parte) da un’AI. Se un’immagine viene creata attraverso un prompt e poi elaborata dalla macchina, chi ne detiene i diritti? E chi è responsabile in caso di violazione dei diritti altrui?

Come spesso accade, non è l’AI in sé a creare problemi, ma la mancanza di riferimenti normativi chiari. Il problema risiede nella nostra capacità di adattare il diritto alle nuove realtà tecnologiche. Il diritto non è statico: si evolve e si adatta, ma è necessaria una visione capace di cogliere i nuovi centri di potere e i modelli emergenti di produzione del valore. Del resto, come ho già sostenuto in ”L’IA è solo uno specchio e ci ricorda quanto siamo umani”, l’intelligenza artificiale riflette le nostre capacità e limiti, mettendo in luce le sfide che dobbiamo affrontare nel definirne l’uso e la regolamentazione.

In questo contesto, i giuristi diventano alleati fondamentali di chi crea. Come? Assistendo gli autori nel rivendicare le proprie opere, supportando le imprese nella protezione di marchi, format, progetti e banche dati, e affiancando coloro che digitalizzano archivi o creano dataset per addestrare intelligenze artificiali, al fine di tutelare quel tipo specifico di creatività che si manifesta nello sviluppo tecnologico.

La proprietà intellettuale non è un retaggio del passato. È una disciplina antica, certo, ma proprio per questo ha sviluppato gli strumenti necessari a difendere il significato, la logica e la motivazione alla base delle creazioni, indipendentemente dalla loro forma di realizzazione.

Conoscere le regole è un atto di libertà

L’intelligenza artificiale non è il nemico. È il nuovo terreno di gioco. E come ogni nuova arena, ha bisogno di regole — anche quando queste sembrano in ritardo, incomplete o ancora incerte. Chi lavora nella cultura non può più permettersi di restare spettatore: deve conoscere il quadro normativo, orientarsi tra i diritti, usare gli strumenti giusti per difendere e valorizzare ciò che produce.

I pilastri del diritto creativo esistono e sono più attuali che mai: copyright, software, banche dati, brevetti, design, marchi, concorrenza sleale, segreti commerciali. Chi conosce questi strumenti non solo tutela le proprie opere, ma può anche costruire modelli di business sostenibili, capaci di convivere con l’AI e sfruttarne il potenziale in modo consapevole.

Certo, la regolamentazione è in ritardo. L’AI Act europeo, come analizzato in Tecnomachia: dal mito della libertà digitale alla sovranità tecnologica, è un tentativo di mettere ordine, ma è ancora parziale e, soprattutto, in ritardo. Il rischio è quello di una zona grigia normativa, dove tutto è permesso finché qualcuno non lo contesta. Per questo, la conoscenza delle regole attuali è l’unica difesa reale, nell’attesa che il legislatore colmi il divario.

Ma conoscere le regole non significa solo difendersi. È anche un atto di progettazione, di autonomia, di libertà. Significa saper decidere cosa delegare all’AI e cosa no. Significa sapere quando un dataset è legale, quando un’opera è originale, quando un contenuto può essere registrato o tutelato. Significa, in sintesi, non rinunciare alla propria identità creativa, ma rilanciarla con strumenti nuovi.

Per questo lo Studio Canella Camaiora ha scelto di accompagnare imprese, autori e professionisti in questo nuovo scenario. Non per opporsi al futuro, ma per aiutare chi crea a rimanere protagonista, anche quando lo scenario cambia a una velocità senza precedenti.

© Canella Camaiora Sta. Tutti i diritti riservati.
Data di pubblicazione: 27 Marzo 2025

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Avv. Arlo Cannela

Avvocato Arlo Canella

Managing Partner dello studio legale Canella Camaiora, iscritto all’Ordine degli Avvocati di Milano, appassionato di Branding, Comunicazione e Design.
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