Valori, visione e tutela legale: il marchio non è solo un logo
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Nel panorama attuale, il branding non può più limitarsi a un esercizio di stile: senza verità, etica e coerenza, i marchi sono destinati a crollare. Il pubblico, sempre più attento e critico, premia i brand autentici e penalizza chi tradisce la fiducia, come dimostrano i casi Ferragni, GLS e Abercrombie. L’era della comunicazione aspirazionale è finita: oggi non basta esserci, bisogna essere rilevanti.
Il branding contemporaneo appare sovente come una disciplina alla portata di tutti e, forse per questo, rischia di creare più danni che valore. Il settore della comunicazione in Italia è destrutturato, popolato da agenzie che delegano – e sfruttano – il lavoro di freelance esterni a basso costo e, conseguentemente, i brand finiscono affidati a mani temporanee di soggetti non meglio identificati.
Chi si occupa di branding, oltretutto, raramente possiede una vera formazione ottenuta sul campo o per via accademica. Se a questo aggiungiamo l’evoluzione dei canali digitali e l’avvento dei new media, il risultato è un’industria che sembra muoversi senza una bussola (vedi anche, in senso provocatorio, l’articolo “Il potere dei marchi di 5 lettere: mito o realtà?”). Così si parla troppo spesso di creatività, estetica, engagement, come se fossero le uniche variabili in gioco. Ma la creatività senza sostanza è… rumore.
Il branding è un sistema complesso, fatto di valori, coerenza e visione, eppure viene spesso ridotto a una sequenza di immagini accattivanti, slogan vuoti e narrazioni che si dissolvono al primo soffio di vento. La scientificità nella comunicazione dovrebbe essere imprescindibile. Noi legali ci occupiamo della tutela del branding: registrazione di marchi, imitazione di campagne, parassitismo… A volte, però, il valore da proteggere è così inconsistente che verrebbe voglia di tutelare altro.
Si cita sempre Apple, Nike o Coca-Cola come esempi di branding di successo, e a ragione. Ma ci si dimentica che dietro a questi marchi ci sono prodotti straordinari, strategie meticolose e un’identità curata fino all’ossessione. Ciò che percepiamo come “figo” ha un perché, e questo perché non è nella scocca, ma nella cultura e nella complessità dell’insieme. Il branding, quando è fatto bene, è il riflesso di un posizionamento chiaro e di una promessa razionalizzata, che il brand protegge e mantiene nel tempo. Tutto il resto è noia (come canterebbe la buonanima di Franco Califano).
Un esempio italianissimo di approccio superficiale è Sasch. Lo ricordate? Un brand che ha puntato molto sull’apparenza e sulla bellezza di Miss Italia, di cui era sponsor (250 boutique monomarca in tutto il mondo, di cui 120 in Italia – lo riporta addirittura Wikipedia). Il marchio non ha mai costruito un’identità solida, non ha mai incarnato valori degni di nota e, quando il pubblico ha smesso di credere nel sogno delle reginette di bellezza, è semplicemente svanito nel nulla. Un avvertimento per chi crede ancora che il branding sia una questione di trend ed estetica, e non di sostanza.
E oggi? Probabilmente seguirà la stessa sorte chi sceglierà di aggrapparsi all’essere “green, inclusivo, sostenibile” senza un approccio credibile e, soprattutto, serio. Senza concretezza, senza una strategia strutturata e identitaria, il brand activism diventa woke-washing, e il rischio non è solo il fallimento, ma anche una sanzione a nove zeri irrogata dal Garante per la Concorrenza e il Mercato.
Se un tempo bastava creare una narrazione seducente, oggi il pubblico è più attento, informato e scettico. La Generazione Z e i Millennials valutano i brand non solo per quello che dicono, ma per quello che fanno.
L’interessante lavoro di Laura Tognon, “Gli effetti del brand activism su Millennials e Generazione Z: boycotting o buycotting?”, lo dimostra chiaramente (Tesi di Laurea Magistrale in Marketing e Comunicazione, Università Ca’ Foscari Venezia, A.A. 2020/2021, Laura Tognon, Rel. Ch. Prof. Leonardo Buzzavo, Correl. Ch. Prof. Michele Tamma). Le nuove generazioni adottano strategie di consumo attivo: premiano i brand che incarnano valori autentici (buycotting) e boicottano quelli che appaiono ipocriti o opportunisti. Il pubblico non vuole più essere sedotto, vuole credere in qualcosa di cui valga la pena fidarsi.
Questa trasformazione è irreversibile. E no, il “trumpismo” non ci porterà indietro. Il pubblico si sta evolvendo comunque, che piaccia o meno.
L’Unione Europea sta progressivamente orientando il mercato verso una maggiore trasparenza, qualità e responsabilità. Le nuove normative sulla sostenibilità e sull’etica aziendale non sono più semplici buone pratiche, ma requisiti per restare sul mercato (approfondisci: ESG e imprese: come prepararsi alla “transizione sostenibile” – Canella Camaiora).
Eppure, molti brand continuano a credere che basti un rebranding, un nuovo logo o una campagna emozionale per recuperare rilevanza. Non hanno capito che il tempo della superficialità è finito.
Oggi non basta esserci. Bisogna essere rilevanti. E per esserlo, le aziende devono smettere di guardarsi allo specchio e iniziare a guardarsi dentro.
Oggi, la qualità dei contenuti è più centrale che mai. In un panorama saturo di informazioni, dove ogni brand compete per l’attenzione, la vera differenza non la fa più un contenuto “bello”, ma uno autentico, utile e significativo. (Viene quindi da domandarsi: Se prendiamo pochi like, dobbiamo preoccuparci? Ne ho parlato in un articolo dedicato alla rilevanza).
Un messaggio privo di qualità non solo rischia di passare inosservato, ma può danneggiare la reputazione del brand, trasmettendo un senso di superficialità che il pubblico moderno non perdona.
Ma cosa significa davvero “verità” nel branded content? Non si tratta solo di una produzione tecnicamente perfetta. La verità sta nella capacità di gestire le qualità oggettive del prodotto, presentandolo per quello che è e, se necessario, ripensarlo prima ancora di raccontarlo. Essere genuini viene prima dell’essere affascinanti.
Se l’obiettivo è rispondere ai bisogni del target, siano essi emotivi, informativi o pratici, la verità deve venire al primo posto. Un contenuto di qualità è radicato nella sincerità. Il consumatore deve poter scegliere davvero (parlavo di questo anche qui: La direttiva EmpCo sui “green claims” cambierà il marketing?).
Infatti, questa evoluzione è guidata dagli stessi consumatori. Abituati a confrontare e valutare innumerevoli proposte online, gli utenti hanno sviluppato un’acuta sensibilità verso i contenuti che promettono troppo e mantengono poco.
Pensati libera! Ma attenzione: il brand che non risponde con coerenza e trasparenza ai propri messaggi non solo viene ignorato, ma rischia di essere smascherato e messo alla gogna pubblica. Il rinvio a giudizio di Chiara Ferragni per truffa aggravata ne è la prova più recente: i consumatori non tollerano più ambiguità su temi sensibili come la beneficenza e la trasparenza commerciale. Il caso del Pandoro Balocco Pink Christmas e delle uova di Pasqua Dolci Preziosi ha mostrato come la fiducia possa crollare quando il pubblico percepisce un’incongruenza tra messaggio e realtà (Margherita Manca, più di un anno fa, trattava il caso qui: “Pratiche commerciali scorrette: il caso ‘Pandoro Pink Christmas’“. Io ne ho parlato più recentemente su LinkedIn: “Chiara Ferragni è il “caproespiatorio” del sistema influencermarketing?“, mentre IlSole24Ore ne ha parlato qui: “Chiara Ferragni a giudizio per truffa: udienza il 23 settembre per i casi Pandoro e uova di Pasqua“, Il Sole 24 Ore, 28 gennaio 2025.)
Ancora più significativo è il caso di GLS, multata per 8 milioni di euro dall’Antitrust per pratiche di greenwashing (cfr. AGCM – Sanzione di 8 milioni al gruppo Gls per pratiche commerciali scorrette, 4 febbraio 2025.) L’azienda promuoveva il programma Climate Protect come un’iniziativa di sostenibilità, ma le dichiarazioni ambientali si sono rivelate vaghe e fuorvianti. Oggi il pubblico non si accontenta più di claim “eco-friendly”: vuole dati concreti, prove verificabili e coerenza tra i valori dichiarati e le azioni reali del brand.
Ma il branding non è solo questione di verità e trasparenza. Anche l’etica e i valori contano.
Il caso di Abercrombie & Fitch è altrettanto significativo: il marchio, simbolo di bellezza elitaria e preppy degli anni ’90, ha subito un declino inesorabile quando il pubblico ha riconosciuto e rifiutato il suo modello discriminatorio. Nel 2014, il brand registrava l’ottavo trimestre consecutivo in perdita, le azioni crollavano e il CEO Mike Jeffries fu costretto a dimettersi tra accuse di sessismo e razzismo. (cfr. Mike Jeffries, amministratore delegato di Abercrombie & Fitch, si è dimesso – Il Post, 10 dicembre 2014.)
Eppure, Abercrombie è riuscito a rinascere, puntando su inclusività, accessibilità e autenticità. Ha ampliato le taglie, ha reso le sue campagne più rappresentative e ha riposizionato il brand per parlare a un pubblico che premia i valori, non l’ostentazione.
Il risultato? Undici trimestri consecutivi di crescita e un ritorno di fiamma tra i Millennials e la Gen Z. (Ne ha parlato Avvenire: “Moda. Fallito come marchio snob, Abercrombie & Fitch è rinato con l’inclusività.“, di Elisa Campisi, 7 febbraio 2024.)
Investire nella qualità comporta una scelta strategica: spesso significa sacrificare la quantità in favore della sostanza. (cfr. Il “mantra” della trasparenza nella nuova Digital Chart IAP – Canella Camaiora)
E non si tratta di episodi isolati. Ferragni, GLS, Abercrombie: non sono segnali sporadici, ma una costellazione di casi che disegna un quadro piuttosto chiaro. Il pubblico sta cambiando. I brand devono capirlo, prima che sia troppo tardi.
L’etica non è più un elemento distintivo, ma un prerequisito imprescindibile. Se un tempo le aziende utilizzavano temi come sostenibilità e inclusione come leve di marketing, oggi il pubblico non si accontenta più di proclami: vuole coerenza e azioni concrete.
Non è un caso che molti brand stiano riducendo la visibilità di questi temi nella loro comunicazione. Non perché abbiano perso importanza, ma perché sono diventati così centrali da non aver più bisogno di essere dichiarati per essere riconosciuti. Anzi, parlarne senza una reale integrazione nel modello di business rischia di suonare come una mossa opportunistica.
Oggi non basta più “esserci”, perché il pubblico è più attento, informato e critico. Se un brand non incarna realmente i valori che comunica, il pubblico lo nota. E lo penalizza.
Non si tratta di un fenomeno isolato, ma di una trasformazione strutturale del mercato. Le aziende che si ostinano a riproporre le vecchie formule comunicative rischiano di apparire scollegate dalla realtà. I consumatori vogliono vedere rispecchiati i propri valori, non ascoltare discorsi studiati a tavolino per risultare politicamente corretti.
Per i brand, quindi, la sfida non è se adottare un’etica autentica, ma come farlo senza cadere nella trappola del marketing superficiale. Meno slogan, più sostanza.
L’epoca della comunicazione aspirazionale è finita. Oggi il branding non può più limitarsi all’estetica o alla persuasione superficiale. Deve diventare uno strumento di dialogo reale, capace di rispecchiare la complessità della società e di promuovere un impatto tangibile.
Chi non lo capisce, non è destinato a perdere quote di mercato. È destinato a scomparire.
Avvocato Arlo Canella