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Quando la legge non basta: come funziona (e fin dove arriva) l’analogia giuridica

Pubblicato in: Difesa Legale
di Martina Di Molfetta
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Cosa succede quando manca una norma chiara? In un ordinamento che si vuole completo, il diritto ha imparato a convivere con le lacune normative grazie all’interpretazione analogica. Ma fino a che punto si può spingere questo strumento? E quali rischi corre chi lo applica in contesti incerti?

In questo articolo approfondiamo il funzionamento dell’analogia giuridica, i suoi limiti e le sue applicazioni più attuali – dal diritto penale alla responsabilità per intelligenza artificiale – per capire quando è possibile colmare un vuoto normativo e quando, invece, serve una chiara risposta legislativa.

Quando la legge tace, come si affronta un vuoto normativo?

Nel quotidiano lavoro di un imprenditore, di un professionista o di una piccola impresa, capita di trovarsi davanti a situazioni nuove, complesse o semplicemente non previste dalla legge. Cosa fare quando manca una norma chiara? Questo non è solo un problema teorico da addetti ai lavori: può bloccare decisioni operative, aumentare il rischio legale o esporre a contenziosi inaspettati. La legge, pur strutturata per essere generale e astratta, non riesce sempre a stare al passo con la realtà sociale, economica e tecnologica (approfondisci: Le nuove fonti del diritto: chi detta le regole nell’era digitale? – Canella Camaiora).

Nel nostro ordinamento, il principio è che non devono esistere situazioni giuridiche prive di regolamentazione. Questo è un concetto fondamentale: ogni caso deve poter trovare una risposta nel sistema delle fonti. Tuttavia, le norme sono scritte da esseri umani, in un determinato momento storico, e spesso vengono superate dalla velocità con cui si trasformano i contesti in cui operano le imprese. Pensiamo, ad esempio, alla responsabilità derivante dall’uso di intelligenze artificiali autonome o alla disciplina del commercio elettronico (vedi anche: La presenza online delle imprese: dai nomi a dominio al “social commerce” – Canella Camaiora).

Quando la legge è assente o ambigua, chi deve applicarla – siano essi giudici, avvocati, o persino imprese che si autodisciplinano per evitare sanzioni – si trova in un terreno scivoloso. Si rischiano interpretazioni divergenti da tribunale a tribunale, un aumento del contenzioso e, cosa ancor più grave per un imprenditore, l’impossibilità di pianificare con certezza il proprio comportamento.

A questo punto entra in gioco il ruolo dell’interprete. L’art. 12 delle disposizioni preliminari al Codice Civile (le cosiddette “preleggi”) stabilisce le regole su come leggere e applicare la legge. E quando una norma non c’è, invita a guardare ai casi simili, o persino ai principi generali dell’ordinamento. È qui che nasce il bisogno – e la legittimità – del ricorso all’analogia.

Il ruolo dell’analogia come “bussola” giuridica

Quando il legislatore non ha previsto una norma per una determinata situazione, il diritto non si ferma. Entra in gioco uno strumento logico e giuridico fondamentale: l’analogia. Si tratta di un meccanismo che consente di applicare una norma esistente a un caso diverso, ma simile, sulla base di una comunanza di ratio, cioè di scopo o finalità normativa.

L’articolo 12 delle preleggi, nel suo secondo comma, lo dice chiaramente: se non c’è una norma specifica, si guardano le norme che regolano “casi simili o materie analoghe”. E se anche così non basta, si attinge ai principi generali dell’ordinamento. In termini semplici: si ragiona per somiglianza, per vicinanza di senso. L’idea è che, anche se una legge non esiste, la risposta si può trovare nei principi che già reggono il sistema giuridico.

L’analogia può assumere due forme distinte. L’analogia legis è il primo passo: si applica una norma pensata per un caso specifico a una situazione affine. Ad esempio, si può estendere la disciplina di un contratto tipico a uno atipico, se condividono la stessa struttura funzionale. L’analogia iuris, invece, è un livello più profondo: quando non c’è nessuna norma simile, il giudice si affida direttamente ai principi generali del diritto (libertà contrattuale, buona fede, tutela dell’affidamento, ecc.).

Questo metodo non è una scappatoia, ma un modo per garantire coerenza, continuità e prevedibilità. In un sistema complesso e turbolento, l’analogia serve a evitare che le lacune normative diventino “buchi neri” giuridici. Serve anche a evitare che due situazioni simili siano trattate in modo ingiustamente diverso solo perché una è espressamente regolata e l’altra no.

Per chi fa impresa, questo significa una cosa molto concreta: anche in assenza di norme specifiche, non si è completamente privi di riferimenti giuridici. L’interpretazione analogica consente di individuare soluzioni ragionevoli, ancorate all’ordinamento, che possono guidare le scelte aziendali, contrattuali e operative.

I limiti oggettivi dell’analogia

Per quanto l’analogia sia uno strumento fondamentale per mantenere coerenza nel sistema giuridico, non può essere usata in modo superficiale. Esistono infatti settori dell’ordinamento in cui il legislatore ha voluto tracciare confini netti, per tutelare principi essenziali come la legalità e la prevedibilità delle sanzioni.

Nel diritto penale, ad esempio, l’analogia è vietata ogni volta che possa portare a un aggravamento della posizione dell’imputato. Lo impone l’articolo 25, comma 2, della Costituzione italiana, secondo cui nessuno può essere punito se non in forza di una legge già entrata in vigore al momento del fatto. È il cosiddetto divieto di analogia in malam partem, che impedisce ai giudici di estendere norme penali a fatti non previsti, per evitare il rischio di interpretazioni creative o arbitrarie.

Nel diritto civile, l’analogia è invece normalmente ammessa, ma anche qui non è priva di rischi. L’uso dell’analogia richiede attenzione, soprattutto quando si applica a settori in evoluzione, dove la mancanza di una disciplina esplicita potrebbe tentare l’interprete a “forzare” l’estensione di norme preesistenti. In mancanza di un quadro chiaro, il pericolo è quello di attribuire doveri o responsabilità non voluti dal legislatore, alterando gli equilibri normativi.

È per questo che, sebbene legittima, l’analogia deve essere usata con metodo e prudenza, rispettando il contesto e la struttura dell’ordinamento. È un’operazione interpretativa delicata, che non può trasformarsi in supplenza legislativa. Oggi più che mai, l’accelerazione tecnologia, ci porterebbe a fare ampio ricorso all’analogia. Ma è davvero possibile utilizzarla in situazioni totalmente imprevedibili?

Diritto e accelerazione tecnologica: quando l’analogia non basta più

Il settore tecnologico rappresenta la vera cartina tornasole dei limiti dell’analogia. L’intelligenza artificiale, in particolare, sfida le categorie giuridiche tradizionali. I sistemi autonomi possono generare contenuti, assumere decisioni, interagire con terzi, e tutto questo spesso in assenza di un quadro normativo specifico. In simili circostanze, l’analogia con norme esistenti – come l’articolo 2047 c.c. o il 2050 c.c. – può fornire soluzioni parziali, ma non riesce a garantire una disciplina stabile, prevedibile e sistematicamente coerente.

Nel nostro Studio, ad esempio, ci siamo già occupati criticamente di questi temi. In “L’AI Act ha ucciso il copyright?”, abbiamo sottolineato come, anche con l’introduzione dell’AI Act, il nuovo regolamento europeo sull’intelligenza artificiale, restino ampie aree grigie in materia di responsabilità, contenuti generati e diritti violati. È evidente che non si possa affrontare il futuro solo con strumenti analogici pensati per il passato.

Nell’articolo “Tecnomachia: dal mito della libertà digitale alla sovranità tecnologica”, abbiamo anche affrontato un tema più ampio: il ruolo del diritto come fattore di direzione e presidio dell’innovazione. Non basta più rincorrere la tecnologia: serve una capacità normativa di anticipare, di disegnare scenari regolativi prima che si creino vuoti.

In definitiva, l’analogia può ancora avere una funzione integrativa, ma non può sostituirsi a una normativa pensata per le sfide contemporanee. Le imprese, i professionisti e i cittadini hanno bisogno di regole chiare, non di soluzioni interpretative instabili o forzate. Ecco perché crediamo che la sfida del diritto, oggi, sia costruire nuovi strumenti normativi, approfondendo il significato più profondo del cambiamento, non adattare vecchie norme costruite in contesti del tutto differenti.

© Canella Camaiora Sta. Tutti i diritti riservati.
Data di pubblicazione: 10 Aprile 2025

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Martina Di Molfetta

Laurenda in Comunicazione, Innovazione e Multimedialità presso l'Università degli studi di Pavia
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