Nel mondo si mangia più “cibo italiano” di quanto l’Italia possa produrne

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Abstract

Nel mondo si mangia più “cibo italiano” di quanto l’Italia possa produrne: è il paradosso dell’italian sounding. Un successo mondiale che si è trasformato in una trappola. Quanto più il Made in Italy conquista i mercati, tanto più viene imitato, evocato, distorto. Il risultato è un danno da miliardi per le imprese italiane, ma anche una battaglia giuridica e culturale che richiede nuove strategie. In questo articolo analizziamo cos’è l’Italian Sounding, quanto ci costa davvero, quali sono i limiti delle tutele legali attuali e cosa possono fare – concretamente – le aziende per difendere la propria identità.

Parmesan, San Marzano style e altre suggestioni

Nel mondo dell’agroalimentare globale, l’italianità è un valore che seduce. Non sorprende, dunque, che i prodotti “falsamente italiani” riempiano gli scaffali di supermercati in ogni angolo del mondo. Il fenomeno si chiama Italian Sounding e non ha nulla a che vedere con l’autenticità: si tratta di una strategia commerciale che gioca sull’equivoco, sfruttando nomi, colori, simboli e riferimenti geografici per evocare un’origine italiana che, nella sostanza, non esiste.

Da “Zottarella” a “San Marzano style”, passando per l’immancabile “Parmesan”, il consumatore straniero si ritrova spesso a scegliere prodotti che sembrano italiani, ma che non lo sono. Il rischio è doppio: da un lato si danneggiano le imprese italiane, che hanno investito in qualità certificata, tracciabilità e filiere controllate; dall’altro si disorienta il consumatore, che potrebbe associare al Made in Italy standard qualitativi inferiori o semplicemente diversi.

Il punto critico è che l’Italian Sounding non è sempre contraffazione nel senso tecnico. Nella maggior parte dei casi, le etichette e i marchi rispettano formalmente le leggi locali, pur evocando impropriamente l’italianità. Questo li rende difficili da contrastare, specialmente nei Paesi extra-UE, dove le tutele per le denominazioni di origine sono meno efficaci o addirittura inesistenti. Il Regolamento (UE) 2024/1143, relativo alle indicazioni geografiche dei vini, delle bevande spiritose e dei prodotti agricoli, infatti, non ha portata extraterritoriale automatica.

Per le imprese italiane, ciò significa dover lottare non solo contro la concorrenza diretta, ma anche contro una concorrenza mimetica, che crea un “rumore di fondo” identitario. La reputazione costruita in decenni di lavoro può essere annacquata da prodotti che ne imitano l’estetica ma non la sostanza. Ecco perché il fenomeno, oltre che economico, è anche culturale e giuridico: è un attacco all’identità del prodotto italiano, che va difesa con strumenti nuovi e consapevolezza diffusa.

Qual è l’impatto economico dell’Italian Sounding sulle imprese italiane?

Nel 2023 l’Italian Sounding ha superato in valore l’export autentico dell’agroalimentare italiano. Secondo il Rapporto 2024 di The European House – Ambrosetti, i prodotti che imitano l’italianità, pur non essendo italiani, hanno generato un giro d’affari di 63 miliardi di euro, superando i 62,2 miliardi di export reale. Una cifra che fotografa un paradosso clamoroso: l’Italia vende meno cibo italiano di quanto il mondo ne consumi – o creda di consumarne.

Si tratta di un fenomeno sistemico, non di una devianza occasionale. E colpisce in particolare le regioni italiane a forte vocazione agroalimentare. La Lombardia subisce un danno stimato in 10,2 miliardi di euro all’anno, seguita da Veneto (10 miliardi), Emilia-Romagna (9,9 miliardi), Piemonte, Campania e Toscana. I comparti più colpiti sono quelli dove l’origine fa la differenza: latticini, salumi, conserve, pasta, olio, vino. Tutti settori dove il valore è legato al territorio, alla reputazione e alla qualità percepita.

Gli esempi concreti aiutano a capire meglio la portata del problema. Il “Parmesan” americano viene venduto con un prezzo inferiore anche del 38% rispetto al Parmigiano Reggiano DOP. Il cosiddetto “Prosek” o “Perisecco” si presenta come alternativa al Prosecco DOP. Pomodori “San Marzano style”, coltivati in Turchia o Stati Uniti, vengono venduti in confezioni che richiamano i colori e le grafiche italiane, ma senza alcun legame con la Campania o con le certificazioni DOP.

Il Regolamento (UE) 2024/1143, che tutela le indicazioni geografiche, funziona bene all’interno dell’Unione Europea, ma non si applica automaticamente nei Paesi terzi. Lì, la protezione dipende da accordi bilaterali o da registrazioni volontarie, come nel caso dell’accordo CETA tra UE e Canada. Dove questi strumenti mancano, le imitazioni prosperano. Negli Stati Uniti, ad esempio, oltre il 60% dei prodotti “tipicamente italiani” è in realtà una copia evocativa, secondo quanto riportato nel Rapporto 2025 “La Roadmap del futuro per il Food & Beverage.

Anche mercati come Germania, Brasile, Giappone, Australia e Canada mostrano un’elevata percezione dell’italianità, ma poche tutele concrete. In questi contesti, le aziende italiane devono difendersi con una strategia multilivello: marchi registrati, consorzi, enforcement giudiziale e doganale, oltre a strumenti digitali come le app di tracciabilità (ad esempio Authentico o la piattaforma Italian Sounding e.V. in Germania).

Nel 2025, infine, l’Italia ha fatto un passo importante: il Consiglio dei Ministri ha approvato un nuovo disegno di legge sulla tutela del Made in Italy (QuiFinanza.it), con sanzioni penali per frode alimentare e misure ad hoc contro l’Italian Sounding. È un segnale di svolta: non più solo difesa passiva, ma una politica economica attiva a protezione dell’identità agroalimentare nazionale.

Zone grigie e “contrafforti” legali

L’Italian Sounding prospera nei margini della legalità. È lì che si muove, tra evocazione e imitazione, tra la suggestione lecita e la frode punibile. In Europa, il confine è tracciato con relativa chiarezza dal Regolamento (UE) 2024/1143, che tutela le Denominazioni di Origine Protetta (DOP), le Indicazioni Geografiche Protette (IGP) e le Specialità Tradizionali Garantite (STG), oltre a Indicazioni Geografiche di vini e bevande spiritose e dei prodotti agricoli. Il regolamento vieta non solo la contraffazione esplicita, ma anche “qualsiasi usurpazione, imitazione o evocazione, anche se l’origine vera dei prodotti o servizi è indicata o se il nome protetto è una traduzione, una trascrizione o una traslitterazione o è accompagnato da espressioni quali «genere», «tipo», «metodo», «alla maniera», «imitazione», «gusto», «come» o simili, anche quando tali prodotti sono utilizzati come ingredienti” (Reg. UE 2024/1143, Capo 3, Art.26, comma 1, lett. b).

Lo ha ribadito la Corte di Giustizia dell’Unione Europea nella nota sentenza C-44/17 (Champanillo). In quel caso, un ristorante spagnolo utilizzava il nome “Champanillo” e una grafica simile a quella dello Champagne. Anche se non vendeva vino, ma tapas, la Corte ha stabilito che l’evocazione di una DOP è illecita anche nella comunicazione commerciale se sfrutta la notorietà del prodotto tutelato. È un precedente importante, perché rafforza la protezione anche in contesti non strettamente agroalimentari.

Fuori dall’UE, però, la situazione cambia radicalmente. In assenza di accordi internazionali o trattati bilaterali, le denominazioni protette europee non godono di riconoscimento automatico. È il caso degli Stati Uniti, dove termini come “Parmesan” o “Asiago” sono considerati generici e quindi non riservati ai prodotti italiani originali. Qui l’arma giuridica principale resta la registrazione volontaria di marchi collettivi o certificati, oppure il ricorso alle norme locali sulla concorrenza sleale o sulla pubblicità ingannevole – strumenti meno efficaci e spesso di esito incerto.

In questo scenario, le imprese italiane devono difendersi su più fronti. La proprietà intellettuale rappresenta la prima linea di tutela: marchi, etichette, loghi, nomi di prodotto, persino colori e simboli evocativi possono essere registrati e difesi legalmente. Una protezione ben congegnata impedisce ad altri operatori di entrare nello stesso spazio semantico e commerciale, costruendo una barriera preventiva.

Importante è anche il ruolo delle autorità doganali e ispettive. In Europa, il Regolamento (UE) n. 608/2013 consente di bloccare le merci contraffatte già in fase di importazione, su segnalazione del titolare dei diritti. In Italia, l’ICQRF (Ispettorato Centrale per la Qualità e la Repressione Frodi) svolge un’attività di vigilanza su scala nazionale e internazionale, collaborando con strutture europee come OLAF (l’ufficio antifrode dell’UE) e RASFF (Sistema di allerta rapido per alimenti e mangimi).

Dunque, la tutela legale dell’italianità è oggi un mosaico complesso: una somma di norme, sentenze, accordi e prassi da gestire con attenzione. Non basta la qualità del prodotto: serve una strategia giuridica multilivello, costruita su misura per ogni mercato.

Proteggere il Made in Italy è possibile, ma serve metodo

Per un’impresa italiana che esporta qualità, il danno da Italian Sounding non è solo teorico: si traduce in fatturato perso, margini erosi e reputazione confusa. Ma la buona notizia è che gli strumenti per difendersi esistono, e molti sono già a disposizione – purché utilizzati in modo sistematico, integrato e proattivo.

Il primo pilastro è la registrazione dei diritti di proprietà industriale. Non è sufficiente registrare un marchio in Italia o in Europa. È fondamentale estendere la protezione ai Paesi target, attraverso il Sistema di Madrid (WIPO) per la registrazione internazionale o utilizzando il marchio collettivo europeo per le produzioni consorziate. Anche loghi, nomi di linea, elementi grafici, slogan e combinazioni cromatiche distintive possono essere tutelati per impedire l’uso confusorio da parte di terzi.

Il secondo strumento è quello delle indicazioni geografiche. Le aziende possono unirsi in consorzi e promuovere la registrazione internazionale di DOP e IGP, oppure, dove previsto, registrare direttamente il nome geografico come marchio certificato. Questo è il caso, ad esempio, degli Stati Uniti, dove l’assenza di tutela automatica delle DOP può essere almeno in parte colmata con una strategia di registrazione mirata e difendibile in sede legale.

Terzo elemento chiave: la contrattualistica per l’export. Ogni accordo con distributori, importatori o licenziatari dovrebbe prevedere clausole specifiche di uso del marchio, obblighi di tracciabilità, standard qualitativi minimi e penali per utilizzo improprio dell’identità commerciale. Il rischio che un partner estero “scivoli” verso pratiche evocative può essere mitigato solo con contratti blindati e monitoraggio attivo.

Sul piano operativo, oggi le aziende possono contare su strumenti digitali di controllo e valorizzazione. App come Authentico permettono ai consumatori di verificare la provenienza dei prodotti, ma offrono anche un canale di marketing legale e tracciabile per i produttori. Iniziative come la Italian Sounding e.V. in Germania o i sistemi di allerta RASFF e ACN (Alert and Cooperation Network) aiutano invece a contrastare i falsi a livello istituzionale.

Infine, ma non meno importante, serve comunicare correttamente l’autenticità. Etichette trasparenti, indicazione d’origine secondo il Regolamento (UE) n. 1169/2011, certificazioni volontarie come la ISO 22005 per la tracciabilità, tutto concorre a rafforzare l’identità italiana in modo verificabile e difendibile. Perché oggi non basta essere italiani: bisogna poterlo dimostrare, anche in tribunale.

In conclusione, l’Italian Sounding non è più un’anomalia commerciale ma una distorsione strutturale dei mercati internazionali. Ma non è inevitabile. Una strategia legale ben costruita, una contrattualistica solida e una comunicazione autentica sono oggi gli strumenti essenziali per proteggere e rilanciare il vero Made in Italy agroalimentare.

© Canella Camaiora S.t.A. S.r.l. - Tutti i diritti riservati.
Data di pubblicazione: 17 Giugno 2025

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Carlo Bobbiesi

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