Abstract
Quando un software professionale viene utilizzato senza licenza, il danno per l’impresa titolare dei diritti può essere elevato — ma anche il risarcimento da corrispondere può risultare particolarmente oneroso. L’analisi si sofferma sulla responsabilità personale degli amministratori e sul rilievo, non solo civile ma anche penale, di queste condotte. La sentenza del Tribunale delle Imprese di Genova n. 334/2025 offre una ricostruzione dettagliata di come si accerta, si calcola e si liquida il danno patrimoniale e morale derivante dall’impiego di software senza licenza. Il caso riguarda un software tecnico di alto valore, ma le regole applicate valgono per qualsiasi programma informatico: la violazione del diritto d’autore può costare ben più di una licenza legittima.
Il caso: software senza licenza nelle PMI
Il Tribunale delle Imprese di Genova (Sez. Imprese, sent. n. 334/2025) si è pronunciato su una controversia che ruota attorno a “CATIA”, uno dei più avanzati software di progettazione tecnica presenti sul mercato, sviluppato da una multinazionale attiva nel campo delle soluzioni per la modellazione industriale. La società titolare dei diritti ha agito in giudizio dopo aver rilevato, attraverso attività di monitoraggio, che il programma veniva utilizzato da tre piccole imprese emiliane senza alcuna licenza d’uso legittima.
Sulla base di tali sospetti, la titolare del software ha richiesto e ottenuto un provvedimento di descrizione giudiziale ex artt. 161 e 162 L.d.A., che ha autorizzato un ufficiale giudiziario, assistito da un consulente tecnico nominato dal giudice, a ispezionare le postazioni informatiche di tre dipendenti presso la sede delle società coinvolte.
Il riscontro è stato inequivocabile: su tredici computer analizzati, tre presentavano copie prive di licenza di “CATIA”, in versioni 2019, 2020 e 2021, per un totale di quattro installazioni non autorizzate. Inoltre, sono stati trovati numerosi file con estensioni riconducibili al software in questione. La sentenza precisa che la titolarità del diritto d’autore risultava comprovata, non solo da certificazioni internazionali (rilasciate dal Copyright Office statunitense e dall’ufficio canadese), ma anche dalle schermate di avvio dei software installati.
La descrizione ha quindi fornito la prova centrale della causa, confermando i sospetti iniziali. Non è stata invece fornita alcuna documentazione che dimostrasse l’esistenza di licenze valide.
Il Tribunale ha quindi accertato una violazione del diritto d’autore ai sensi dell’art. 64-bis L.d.A., ravvisando anche gli estremi dell’illecito penale ex art. 171-bis L.d.A., trattandosi di utilizzo illecito all’interno di un contesto imprenditoriale. La responsabilità è stata attribuita tanto alle società quanto ai loro amministratori. Vediamo perché.
Amministratori o dipendenti: chi risponde dell’utilizzo di software abusivi?
La sentenza del Tribunale di Genova (Sez. Imprese, sent. n. 334/2025) non si limita a colpire le tre società che hanno usato il software CATIA senza licenza. A essere condannati sono anche i singoli amministratori, membri del CdA delle società coinvolte. Il giudice sottolinea che, date le modeste dimensioni organizzative delle imprese, l’uso illecito di un software tecnico e costoso come CATIA non poteva passare inosservato.
«[…] le ridotte dimensioni delle società convenute e le attività da esse svolte – che richiedono inevitabilmente l’utilizzo di software come quelli illecitamente utilizzati – induce a ritenere poco credibile l’inconsapevolezza dell’amministratore circa l’utilizzo dei software contestati, se non altro in ragione dell’inevitabile risparmio di spesa così ottenuto».
Ma la responsabilità dell’amministratore non si limita alla consapevolezza. Essa si estende anche a comportamenti omissivi, come il mancato controllo delle licenze software e l’assenza di misure tecniche di prevenzione:
«[…] la responsabilità dell’amministratore sussisterebbe anche ove non fosse dimostrabile la sua consapevolezza, in quanto il danno diretto nei confronti delle società titolari dei diritti sui software scaturirebbe anche da una condotta omissiva, ossia il mancato controllo delle licenze dei software utilizzati dai dipendenti e la mancata adozione di misure tecniche idonee ad impedire l’installazione di software privi di licenza». (Trib. Genova, Sez. Imprese, sent. n. 334/2025)
I dipendenti, per il momento, non sono stati né convenuti né condannati, anche se hanno avuto un ruolo determinante: i computer in loro uso contenevano le copie illecite del software, e proprio questo ha permesso di accertare l’illecito.
Tuttavia, la responsabilità giuridica è rimasta, in solido con l’azienda, in capo alle figure apicali, un dato rilevante per ogni impresa che gestisce strumenti digitali ad alto valore.Ma se la responsabilità è stata accertata, anche in capo agli amministratori, resta da capire: quanto vale questo danno e come si calcola?
Come si calcola il danno per l’impiego di software pirata?
La sentenza in commento rappresenta un monito chiaro per le imprese, soprattutto per quelle di piccole dimensioni: il risparmio solo apparente ottenuto attraverso l’uso di software “pirata” può tradursi in un’esposizione legale ingente, anche in assenza di un profitto dimostrabile derivante dallo sfruttamento del software.
Il caso deciso dal Tribunale di Genova (Sez. Imprese, sent. n. 334/2025) si distingue per l’entità particolarmente elevata del danno patrimoniale, dovuta alla natura del software coinvolto: “CATIA” è infatti uno strumento di progettazione industriale ad alta complessità, il cui valore di mercato è misurabile in milioni di euro per singola licenza.
Secondo quanto accertato, le versioni installate abusivamente corrispondevano a due licenze “premium” (AL3) e due “standard” (AL2), per un valore complessivo pari a 6.524.151,20 euro. Il Tribunale ha deciso di liquidare il danno patrimoniale in base al criterio del “prezzo del consenso”, previsto dall’art. 158, comma 2 della Legge sul diritto d’autore, che consente al giudice di:
«liquidare il danno in via forfettaria sulla base quanto meno dell’importo dei diritti che avrebbero dovuto essere riconosciuti, qualora l’autore della violazione avesse chiesto al titolare l’autorizzazione per l’utilizzazione del diritto».
La parte attrice aveva chiesto anche un’ulteriore maggiorazione del danno, tenendo conto degli utili illeciti eventualmente realizzati dalle società convenute. Ma il Tribunale ha rigettato tale richiesta, chiarendo un aspetto giuridico rilevante: il sistema del diritto d’autore non prevede la retroversione automatica degli utili, a differenza di quanto stabilito dall’art. 125 del Codice della proprietà industriale.
Il giudice cita espressamente la Cassazione civile n. 21832/2021, che spiega come il legislatore abbia scelto, per il diritto d’autore, un sistema risarcitorio più flessibile e meno punitivo rispetto a quello previsto per i diritti di proprietà industriale:
«[…] non fosse il caso di introdurre nel sistema rimediale delle violazioni del diritto d’autore e dei diritti connessi quella più drastica tutela restitutoria che ha invece giudicato opportuna in materia di diritti di proprietà industriale […]».
Il principio è stato ribadito anche dalla Cass. civ. n. 39762/2021, secondo cui i profitti ottenuti dall’autore dell’illecito possono costituire un parametro concorrente nella liquidazione del danno, ma non impongono un obbligo di restituzione automatica.
La legge consente quindi al giudice di scegliere tra due criteri: il danno effettivo (se dimostrabile) o la quantificazione forfettaria in base al valore della licenza. In mancanza di documentazione contabile, quest’ultima rappresenta una base oggettiva e legalmente sufficiente.
Ecco i numeri emersi dalla sentenza:
- Due licenze AL3 – CATIA All in One Marketing, per un totale (licenza + manutenzione) di 3.376.335,60 €
- Due licenze AL2 – CATIA, per un totale di 3.147.815,60 €
- Totale del danno patrimoniale: 6.524.151,20 €
Ma la vera portata della decisione va ben oltre il singolo caso. Il criterio del “prezzo del consenso” non è riservato ai software d’élite: è un principio generale, valido per qualsiasi programma informatico utilizzato in ambito aziendale senza autorizzazione, a prescindere dal suo valore.
Anche nel caso di un gestionale commerciale o di un software per uso d’ufficio dal costo contenuto, l’utilizzo non autorizzato configura una violazione del diritto d’autore, e può comportare una condanna pari almeno al valore di mercato della licenza legittima.
Va ricordato che il settore dei software professionali è uno dei più colpiti dalla pirateria digitale: secondo i dati raccolti da EUIPO e diffusi in Italia dallo Studio Canella Camaiora, il fenomeno continua a rappresentare una minaccia rilevante per la proprietà intellettuale e per l’equità del mercato (approfondisci: La pirateria in Europa: i dati ufficiali di M. Manca). Le violazioni si verificano soprattutto in ambito aziendale e tecnico, dove i software piratati vengono spesso impiegati in modo strutturale, anziché occasionale.
Ma non è tutto. Come vedremo tra poco, l’art. 158 L.d.A. prevede anche il risarcimento del danno non patrimoniale.
Quando pesa il danno morale?
Accanto al risarcimento per il danno economico, la legge sul diritto d’autore consente – in presenza di determinate condizioni – di ottenere anche un risarcimento per il danno non patrimoniale. Si tratta di una forma di ristoro che ha natura morale, reputazionale o simbolica, e che trova fondamento nell’art. 158, comma 3, della Legge sul diritto d’autore, in combinato con l’art. 2059 c.c. e l’art. 185 c.p..
Il Tribunale di Genova ha applicato questo principio nel caso esaminato, precisando che:
«la domanda di risarcimento del danno non patrimoniale di cui all’ultimo comma dell’art. 158 L.d.A va accolta» e che tale norma «consente il risarcimento del danno non patrimoniale ai sensi dell’art. 2059 c.c., che, a sua volta, prevede espressamente il risarcimento di tale danno nei casi determinati dalla legge».
Il “caso determinato dalla legge” in questo contesto è la commissione di un reato, poiché – ricorda la sentenza – «la condotta di detenzione e utilizzo non autorizzati del software CATIA da parte delle società convenute** integra anche l’illecito penale ex art. 171-bis L.d.A.**». Ed è proprio questa qualificazione penale della violazione che legittima la condanna anche sotto il profilo non patrimoniale.
La stima è stata fatta in via equitativa, come prevede la norma, e parametrata al danno patrimoniale già accertato. Il Collegio ha ritenuto equo quantificare il danno non patrimoniale in 500.000 euro, comprensivo di rivalutazione monetaria e interessi legali dalla data della sentenza.
Il danno morale non è quindi un “di più” simbolico, ma una voce reale e rilevante della condanna, quando l’illecito colpisce beni immateriali come la reputazione aziendale, la percezione di affidabilità commerciale o la lesione della fiducia nel mercato. In un contesto dove il software rappresenta un asset strategico, anche la perdita di controllo sul suo uso indebito da parte di terzi può configurare un pregiudizio morale serio.
In conclusione, la presenza del reato non solo rafforza la posizione dell’avente diritto, ma aumenta sensibilmente l’importo complessivo del risarcimento dovuto. È questo il caso in cui la violazione “pesa di più”: economicamente e moralmente.
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Data di pubblicazione: 18 Giugno 2025
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Arlo Canella
Managing & founding partner, avvocato del Foro di Milano e cassazionista, responsabile formazione e ricerca indipendente dello Studio CC®.