Si fa presto a dire copiato! Il Tribunale di Brescia sul design della moda – sent. 7 maggio 2025

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Abstract

Il Tribunale di Brescia, con sentenza del 7 maggio 2025, ha rigettato le domande di contraffazione e concorrenza sleale relative a un parka invernale, ritenendo infondate le accuse di imitazione servile, appropriazione di pregi e violazione di design non registrato. La decisione si fonda sull’elevata diffusione sul mercato delle caratteristiche contestate, ritenute “notoriamente” comuni, e sull’assenza di un titolo registrato. Il caso diventa un esempio chiarissimo dell’effetto boomerang che può derivare da azioni legali infondate, in particolare nei settori saturi come quello della moda.

Il caso: l’accusa di imitazione di un parka “troppo simile”

Con sentenza n. 1884 del 7 maggio 2025, il Tribunale di Brescia – Sezione specializzata in materia di imprese – si è pronunciato su una controversia che ha coinvolto due aziende operanti nel settore dell’abbigliamento. La parte attrice ha convenuto in giudizio una concorrente, accusandola di aver imitato pedissequamente un proprio modello di parka invernale, diffuso sul mercato da tempo.

La domanda giudiziale si articolava su più fronti: contraffazione di design comunitario non registrato, imitazione servile, appropriazione di pregi e concorrenza sleale ai sensi dell’art. 2598 c.c., con richieste accessorie di inibitoria, risarcimento danni e pubblicazione della sentenza.

Secondo l’attrice, il capo concorrente avrebbe ripreso in modo illecito una combinazione di elementi stilistici e funzionali ritenuti distintivi del proprio modello. La sentenza riporta testualmente le caratteristiche contestate:

  • taglio dei capi, posizionamento delle tasche, forma delle pattine, pala che copre la cerniera anteriore”;
  • tessuto esterno”;
  • modo di applicazione della zip anteriore”;
  • finale della cerniera ‘prendizip’”;
  • bottoni automatici utilizzati”.

A ciò si aggiungeva l’impiego di un tessuto tecnico “3 layer” (lycra, membrana antivento e pile), che l’attrice rivendicava come elemento innovativo e caratterizzante del proprio design.

La vicenda si colloca in un contesto fortemente competitivo, segnato da un’elevata standardizzazione di forme e soluzioni estetiche. Il settore moda – e in particolare quello dei giacconi parka – rappresenta uno degli ambiti più affollati e dinamici del mercato.

Si fa presto a dire copiato!

Il primo snodo affrontato dal Tribunale di Brescia nella sentenza n. 1884 del 7 maggio 2025 riguarda la domanda di contraffazione del design, avanzata da chi lamentava l’imitazione del proprio parka. Secondo l’attrice, le caratteristiche estetiche e funzionali del proprio capo erano sufficientemente distintive da costituire un modello di fatto, tutelabile ai sensi del Regolamento (CE) n. 6/2002.

La protezione dei disegni e modelli comunitari non registrati, tuttavia, presuppone che il prodotto possieda carattere individuale (art. 6), inteso come una “impressione generale diversa” rispetto a modelli già divulgati. Non solo: il Regolamento impone di valutare anche il “margine di libertà dell’autore” nella creazione del design.

In mercati affollati come quello della moda – dove le forme tendono a standardizzarsi – quel margine si restringe, rendendo più arduo distinguersi (su questo punto si è già soffermato anche il Tribunale dell’Unione Europea, con la sentenza T-545/23 della fine dell’anno scorso – per approfondire: Mercati saturi e validità del design: il punto di vista del Tribunale UE – Margherita Manca)

Poi, l’attrice non ha registrato il proprio modello, e la tutela invocata richiedeva una prova rigorosa dei presupposti della tutela. A rendere inefficace l’azione è stata in particolare la linea difensiva della convenuta, che ha documentato la presenza pregressa sul mercato di numerosi capi con caratteristiche analoghe, mostrando che gli elementi contestati erano largamente diffusi e noti.

Scrive la sentenza:

I pretesi elementi individualizzanti invocati […] costituiscono difatti – notoriamente – caratteristiche rinvenibili in una grande quantità dei prodotti comunemente in commercio”.

Nemmeno l’utilizzo di un tessuto tecnico “3 layer”, rivendicato come innovativo, è bastato a colmare il vuoto: la Corte ha rilevato che non produceva un’impressione generale significativamente diversa sul consumatore informato (vedi anche: Quale tutela per il design quando ci si ispira a forme antiche – Arlo Canella).

Accuse di imitazione ed “effetto boomerang”

La parte attrice, convinta di essere stata vittima di un’imitazione, aveva chiesto al giudice di accertare non solo la contraffazione del proprio design, ma anche l’imitazione servile, l’appropriazione di pregi e una generica condotta di concorrenza sleale da parte della controparte. Il Tribunale, nella seconda parte della motivazione, smonta sistematicamente ciascuna di queste accuse, sottolineando una carenza strutturale dell’impianto accusatorio.

Anzitutto, l’imitazione servile viene esclusa con fermezza. Secondo quanto affermato dalla stessa attrice, questa figura è configurabile solo quando le forme esteriori del prodotto imitato sono nuove e originali. Ma – aveva già osservato il giudice nella parte relativa alla contraffazione – tali requisiti non sussistevano. Le caratteristiche rivendicate come distintive erano in realtà elementi tipici della categoria merceologica di riferimento. In un mercato, come quello dei giacconi parka, in cui le forme sono spesso standardizzate e ispirate alle medesime tendenze, parlare di originalità assoluta può risultare pretestuoso.

Anche l’appropriazione di pregi viene esclusa. La Corte osserva che non vi è alcuna prova di una condotta di auto-attribuzione indebita di qualità riferibili alla parte attrice. Nessun riferimento pubblicitario, nessuna menzione indiretta, nessuna campagna comparativa. In mancanza di indizi concreti, l’accusa si fonda su una percezione soggettiva che non ha trovato riscontro oggettivo (vedi anche: Quando “cavalcare” la reputazione altrui è un atto illecito? – Arlo Canella).

Infine, la concorrenza sleale generica (art. 2598, n. 3 c.c.) viene rigettata in quanto formulata in termini vaghi e ripetitivi, priva di contenuti aggiuntivi rispetto alle censure già esaminate e respinte.

Il risultato è netto: una sconfessione completa dell’intero impianto accusatorio, con condanna dell’attrice alla rifusione delle spese legali nella misura di 14.103 euro, oltre accessori e spese forfettarie, nonché alla corresponsione – in solido – delle spese di consulenza tecnica d’ufficio. Una vera e propria “sberla giudiziaria”, che evidenzia il rischio strategico insito in azioni legali avviate senza analisi preventiva, senza registrazione e senza prove forti e persuasive.

Insomma, non tutte le somiglianze costituiscono imitazione, e non ogni accusa di concorrenza sleale è fondata. Soprattutto nei settori ad alta densità creativa, come la moda, è essenziale verificare l’effettiva interferenza con modelli anteriori e valutare le probabilità di successo prima di agire (su questo argomento, nel settore della gioielleria, vedi anche Quale tutela per il design quando ci si ispira a “forme antiche”? – Canella Camaiora).

Il ruolo della registrazione del design nel settore moda

Il caso deciso dal Tribunale di Brescia fa decisamente riflettere: chi accusa deve farlo con strumenti concreti e una strategia consapevole, perché in giudizio non conta “sentirsi copiati”, ma dimostrare di avere diritto a una tutela giuridica effettiva. E il primo presidio reale è, senza dubbio, la registrazione del design.

Perché un giudice dovrebbe offrire tutela e riconoscere l’originalità di un prodotto, se nemmeno il suo titolare si è premurato di registrarlo? Nel settore moda – come in tutti i mercati creativi ad alta concorrenza – la registrazione non è una formalità, ma una scelta imprenditoriale strategica.

A differenza del modello comunitario non registrato (che ha validità di soli tre anni), la registrazione:

  • fissa nel tempo l’esclusiva sul progetto (per 25 anni);
  • genera una presunzione iuris tantum di validità del modello;
  • esonera il titolare dall’onere di dimostrare che il competitor conosceva il design;
  • permette di agire con maggiore forza in sede giudiziale o doganale.

Naturalmente, la registrazione del design non salva da anteriorità invalidanti: se un prodotto non è nuovo, non lo diventa con un deposito.

Ma se anche solo un barlume di carattere individuale dovesse esistere, di fronte a un’imitazione pedissequa, il giudice avrebbe quantomeno un titolo registrato su cui fondare una decisione cautelativa a favore dell’imprenditore prudente e lungimirante. Del resto, se si è investito nella creazione di un prodotto innovativo, perché non investire anche nella sua tutela attraverso la registrazione?

Inoltre, prima di agire contro un potenziale concorrente, è indispensabile valutare le anteriorità e verificare eventuali interferenze. Non solo per evitare spiacevoli sorprese in giudizio, ma anche per non alimentare contenziosi infondati, potenzialmente dannosi per l’immagine aziendale e per la solidità economica del business.

Nel caso esaminato, forse è stata proprio l’assenza di un titolo registrato a fare la differenza… ma, poiché quella registrazione non c’era, non lo sapremo mai.

© Canella Camaiora S.t.A. S.r.l. - Tutti i diritti riservati.
Data di pubblicazione: 17 Luglio 2025

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Joel Persico Brito

Laureato presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, Praticante avvocato appassionato di contenzioso e diritto dell’arbitrato.

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