Sad Beige™ e diritto d’autore: quando gli influencer vanno in tribunale

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Abstract

Nel 2024, due influencer statunitensi si sono affrontate in tribunale per una questione inedita: la presunta violazione di un’estetica digitale, il cosiddetto “Sad Beige”. Al centro della causa, il confine sottile tra ispirazione e plagio nell’influencer marketing. L’articolo analizza la vicenda giudiziaria Gifford vs. Sheil e riflette sul possibile riconoscimento giuridico di atmosfere comunicative e stili visivi, offrendo spunti per gli operatori del diritto e per chi lavora nel digitale.

Quando il diritto incontra estetica digitale e “vibes”: influencer contro influencer

Che il diritto si trovi in un certo senso a dover inseguire la realtà è a ben vedere fisiologico: prevedere le criticità e le falle sistemiche può essere arduo, è più facile porvi rimedio col senno di poi. Ci sono dei casi, quindi, in cui l’adeguamento giuridico passa per la giurisprudenza prima ancora che per l’attività legislativa, perché i cittadini chiedono che i tribunali diano loro delle risposte, spesso a volentieri anzitempo rispetto all’intervento regolatorio dei legislatori di turno.

Esemplificando, è quello che accadde negli anni ’90 coi nomi a dominio, quando i giudici si trovarono a fronteggiare illeciti che in quel dato momento storico sembravano stravaganti, ma che poi – anche e proprio grazie agli input forniti da alcuni magistrati “evolutivi” – vennero e sono adeguatamente normati (si tratta peraltro, in molti casi, di illeciti che vengono commessi ancora oggi: si veda per esempio l’interessante contributo della Collega Manca “La scelta di un dominio Web può rivelarsi complicata: il caso “Stock””).

Oggi invece sono in particolare i social a lanciare sfide sempre nuove agli operatori del diritto, come è accaduto con la recente (e ormai conclusa) controversia tra due influencer statunitensi, Sydney Nicole Gifford e Alyssa Sheil: una causa che ha fatto molto parlare di sé, non tanto per l’oggetto immediato – i soliti sospetti di parassitismo e violazione autoriale – quanto per il terreno scivoloso su cui si è mossa, quello dell’estetica digitale e delle “vibes”.

Un processo breve, certo, e che in questa occasione – come avremo modo di illustrare – non è approdato a una pronuncia giudiziale, ma che ha nondimeno sollevato interrogativi profondi, e che vale la pena raccontare con ordine (a vertenza ancora in corso, peraltro, noi di Canella Camaiora ce ne eravamo già occupati).

Origine e svolgimento della controversia

Tutto ebbe inizio nell’aprile del 2024, quando Sydney Nicole Gifford – influencer da oltre mezzo milione di follower su TikTok®, InstaGram® e Amazon® Storefront – citò in giudizio la collega Alyssa Sheil davanti al Tribunale del Texas (Western District – Austin Division).

La causa venne radicata per vedere accertati vari presunti illeciti, fra cui violazioni autoriali, appropriazione del trade dress e concorrenza sleale in generale.

Secondo la Gifford, la Sheil avrebbe costruito la propria identità digitale copiando sistematicamente contenuti, estetica, persino tratti distintivi fisici (come un tatuaggio floreale), in modo da confondere il pubblico e sottrarle quote di mercato nel settore – oggi sempre più competitivo – dell’influencer marketing.

Al centro della disputa non vi era, dunque, un singolo contenuto asseritamente copiato, bensì l’intera atmosfera comunicativa, lo stile, la cifra identitaria. Un “Sad Beige” composto da palette minimal, ambienti neutri, toni pacati, posture empatiche e contenuti capaci di suscitare l’immedesimazione da parte del pubblico. Tutto ciò che, secondo la Gifford, costituiva il suo trade dress riconoscibile e meritevole di tutela.

Molte, dunque, le doglianze della parte attrice, e la svolta processuale – forse – si è avuta quando il Giudice istruttore Dustin Howell, alla fine del 2024, ha dichiarato di ritenere infondate alcune delle domande della Gifford (fra cui, per esempio, quella per concorrenza sleale), consentendo però di procedere per le domande in materia di violazione del copyright, violazione del trade dress, violazione del DMCA (Digital Millennium Copyright Act) e sfruttamento illecito del diritto d’immagine.

In una sua relazione, peraltro, il Giudice Howell non mancò di sottolineare come: «Questo caso sembra essere il primo del suo genere: un social influencer accusa un altro influencer di violazione del copyright sulla base delle somiglianze tra i loro post che promuovono gli stessi prodotti». Una partita giudiziale tutta da giocare, dunque.

La fine (con qualche strascico)

La causa si è formalmente chiusa in data 28 maggio 2025, con il deposito congiunto di un “accordo di archiviazione a titolo definitivo” (“Stipulation of Dismissal with Prejudice”: in buona sostanza, un atto in cui le parti in causa concordano di chiudere la vertenza, e questa pattuizione impedisce all’attore di presentare nuovamente le medesime richieste contro il medesimo convenuto in futuro; in un certo senso, una decisione definitiva e vincolante, al pari di una sentenza di merito). Nessuna condanna, nessuna transazione economica: la Gifford ha rinunciato all’azione, e la Sheil non le verserà alcunché; le spese legali integralmente compensate fra le parti.

Ex post, tuttavia, le parti non hanno mancato di lanciarsi qualche frecciatina.

I legali di Alyssa Sheil hanno definito l’esito «una vittoria totale», sottolineando come la Gifford «non abbia ottenuto nulla». Caratterizzata da velleità più simboliche la dichiarazione della convenuta Sheil, che ha rivendicato il proprio diritto a restare nel settore, senza farsi intimidire, e ha voluto interpretare la vicenda come un mezzo per lanciare un messaggio alle giovani imprenditrici: «Non ci faremo intimidire da chi vuole estrometterci con mezzi pretestuosi».

La Gifford, oggi Sloneker, ha scelto invece di mantenere un profilo più basso (se ci è concessa la battuta, un profilo più… Sad Beige!), spiegando di aver scelto la via della rinuncia per concentrarsi sulla famiglia e sull’attività imprenditoriale; anche se il legale ci ha tenuto a precisare come – dal suo punto di vista – la decisione di transigere non debba essere interpretata come una resa: «Le domande di Mrs. Sloneker hanno superato il vaglio dell’ammissibilità, dunque non erano affatto frivole. La decisione di non proseguire è frutto di valutazioni strategiche, non giuridiche».

La posta in gioco (giuridicamente parlando)

Ora, si potrebbe archiviare tutto con una scrollata di spalle: due influencer, qualche fotografia simile, qualche scaramuccia sui social… e poco altro. Ma si tratterebbe di un approccio, oltre che inutile, superficiale.

In realtà, il caso Sheil-Gifford rappresenta un potenziale punto di svolta. Si tratta infatti, a tutti gli effetti, di una delle prime volte in cui un tribunale è stato chiamato a valutare se e fino a che punto sia possibile tutelare giuridicamente un’estetica digitale. Non un marchio registrato, non un’opera protetta dal Diritto d’Autore, ma un “insieme coerente di scelte stilistiche”: un trade dress, appunto, fatto di scelte narrative e contenutistiche, colori, ambienti, toni e atteggiamenti.

Ci troviamo in un frangente in cui adottare una posizione decisa è tutt’altro che agevole, anche al netto del pensiero di chi vorrebbe sostenere – forse in maniera un po’ troppo libertaria – che la comunicazione contemporanea sia fondata sulla ripetizione, sull’ibridazione, sull’“ispirazione reciproca”.

È pur vero, però, che gli influencer lavorano su prodotti simili, scelgono tra palette condivise, utilizzano format comuni e vengono spinti dagli algoritmi verso i contenuti che funzionano. L’originalità esiste ancora, ma è sottile, spesso impalpabile, e tende ad affondare nel mare magnum dell’efficacia comunicativa. In questo scenario, stabilire se ci si trovi dinanzi a una copia illecita o a una derivazione lecitamente ispirata può diventare arduo.

L’estetica può essere protetta, sì o no?

Se si riducesse il tutto, in modo provocatorio (ma anche molto sciatto), alla possibilità di convalidare una sorta di monopolio sul “Sad Beige”, la risposta – almeno per ora – dovrebbe essere no. E, per quanto riguarda lo scrivente, sarebbe giusto così.

Perché il trade dress dovrebbe essere protetto quando l’identità visiva diventa distintiva e riconoscibile agli occhi del consumatore; e questa identificazione deve avvenire in misura sistematica e inequivoca.

L’archiviazione concordata del caso Sheil-Gifford rappresenta, per noi studiosi, un po’ un’occasione persa, perché sarebbe stato senz’altro stimolante leggere un primo parere motivato dei Giudici su una vertenza così articolata e complessa.

Ma ormai la via è segnata, potete starne certi: ci saranno altre occasioni.

E, nel mentre che aspettiamo che la giurisprudenza faccia il suo corso, noi di Canella Camaiora saremo sempre pronti a mettere al vostro servizio le nostre competenze, fornendovi un solido vascello per navigare in queste acque ancora così burrascose.

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Data di pubblicazione: 17 Luglio 2025
Ultimo aggiornamento: 21 Luglio 2025

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Avv. Daniele Camaiora

Daniele Camaiora

Senior Partner dello studio legale Canella Camaiora, iscritto all’Ordine degli Avvocati di Milano e Cassazionista, appassionato di Nuove Tecnologie, Cinema e Street Art.

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