Abstract
Lo scorso aprile 2025, il Tribunale di Brescia ha affrontato un caso che potrebbe capitare a chiunque affidi a terzi lo sviluppo di soluzioni digitali su misura. Due società – una committente, l’altra sviluppatrice – si sono scontrate sulla titolarità dei codici sorgente di un software industriale, utilizzato per il funzionamento di presse metalliche. L’impresa committente sosteneva che il software fosse di sua proprietà. La sviluppatrice, invece, ne rivendicava la titolarità esclusiva, rifiutandosi di consegnare i codici. Da lì è partita una battaglia legale che ha toccato due punti cardinali del diritto industriale: diritto d’autore, software, know-how e segreti commerciali.
Perché il codice sorgente è così importante?
Il codice sorgente è l’insieme di istruzioni scritte da programmatori in linguaggi comprensibili agli essere umani. È il punto di partenza da cui si genera il codice eseguibile, vale a dire il programma che il computer può comprendere e avviare. Ma mentre il codice eseguibile può essere solo usato, il sorgente può essere modificato, adattato, evoluto, rendendolo il vero “cuore” del software.
Per una società, possedere il codice sorgente significa poter intervenire sul programma in qualsiasi momento. Non possederlo significa l’esatto opposto ossia dipendere interamente da chi lo ha sviluppato, con un rischio concreto di blocco operativo in caso di rottura dei rapporti (approfondisci: Il rischio di “dipendenza” dal fornitore tecnologico e come tutelarsi con il Software Escrow – Canella Camaiora).
In contesti industriali complessi, come quello delle presse per lo stampaggio di metalli, il software non è un semplice gestionale: è il cervello dell’impianto, regola ogni fase del processo produttivo, dalla pressione applicata alla sequenza temporale delle operazioni. Questo codice è spesso frutto di personalizzazioni estreme, modellate sulle esigenze specifiche di un cliente o di una macchina. In altre parole, rappresenta know-how tecnologico in forma informativa, difficilmente replicabile senza anni di esperienza e di prove.
Proprio per questo, il codice sorgente ha un valore commerciale altissimo: chi lo detiene può duplicarlo, riutilizzarlo, offrirne varianti ai clienti o, peggio, intervenire su impianti di proprietà altrui con servizi di assistenza paralleli. È una leva competitiva, ma anche un potenziale strumento di concorrenza sleale se utilizzata senza consenso.
Va, infine, sottolineato, che il codice sorgente può diventare anche oggetto di tutela giuridica, rientrando nella disciplina del diritto d’autore come opera dell’ingegno e, in alcuni casi, come segreto commerciale se custodito con adeguate misure di sicurezza e legale. La corretta gestione del codice sorgente è una delle chiavi per proteggere l’innovazione dell’impresa.
A chi appartiene il codice sorgente?
Uno degli aspetti principali della decisione del Tribunale di Brescia riguarda la titolarità del software sviluppato su commissione. In parole semplici, il giudice ha stabilito che quando una società affida a un’altra – sia essa fornitore, consulente o libero professionista – lo sviluppo di un software, la proprietà del prodotto finale spetta al committente, a meno che non sia stato concordato diversamente in forma scritta.
Questa conclusione si fonda su una norma precisa della Legge sul Diritto d’Autore (LdA – n. 633/1941), l’art. 12bis, che stabilisce che il datore di lavoro è titolare dei diritti economici sulle opere create dai propri dipendenti. Il giudice ha applicato questo principio anche al rapporto tra imprese, estendendo per analogia la regola anche ai casi in cui lo sviluppatore è un soggetto esterno, purché agisca su incarico e secondo direttive precise del committente (ne abbiamo parlato anche qui Codice sorgente: la software house è tenuta a consegnarlo al committente? – Canella Camaiora).
Questo significa che non è necessario un contratto che parli esplicitamente di “cessione dei diritti”: se l’attività di sviluppo rientra chiaramente in un rapporto di committenza, i diritti economici – come l’uso, la modifica e la distribuzione del software – sono automaticamente del committente. Si tratta di una forma di acquisto a titolo originario, che prescinde dal pagamento di un compenso separato per la proprietà.
Nel caso specifico, il giudice ha anche valorizzato due accordi di riservatezza firmati dalle parti nel 2009 e nel 2019, i quali stabilivano che non solo il software, ma anche il know-how tecnico e commerciale generato durante la collaborazione, sarebbe rimasto di proprietà della committente. Tali documenti si sono rivelati decisivi per la ricostruzione della volontà delle parti e hanno confermato che non vi era alcuna volontà di riconoscere un diritto esclusivo alla sviluppatrice.
Questo orientamento è molto importante per le imprese. Evidenzia che, in assenza di contratti chiari, la legge protegge il committente, riconoscendogli il diritto esclusivo di usare e gestire il software che ha commissionato. Tuttavia, resta sempre consigliabile specificare chi detiene la proprietà intellettuale, cosa comprende il compenso, e come gestire i codici sorgente e gli aggiornamenti futuri.
Segreti commerciali e know-how: un patrimonio invisibile ma prezioso
L’ordinanza in esame non si è limitata a regolare la proprietà del software. Ha affrontato un tema altrettanto importante per molte imprese, ovvero la protezione dei segreti commerciali e del know-how tecnico. In particolare, nel caso oggetto di giudizio, la committente ha denunciato l’uso non autorizzato della controparte di disegni tecnici altamente personalizzati, utilizzati per la produzione di presse industriali (approfondisci Know-how commerciale: come tutelarlo e reagire in caso di “furto” – Canella Camaiora).
Ma cosa si intende, in termini giuridici, per “segreti commerciali”? La legge li definisce come informazioni riservate che possiedono tre caratteristiche:
- segretezza, nel senso che non devono essere facilmente accessibili da persone esterne;
- valore economico, in quanto devono conferire un vantaggio competitivo a chi le detiene;
- tutela effettiva, vale a dire che le informazioni devono essere protette attraverso misure adeguate, come accordi di riservatezza o sistemi di sicurezza.
Nel caso in esame, i disegni tecnici rientravano pienamente in questa definizione. Non si trattava di materiali generici o standardizzati, ma di progetti su misura, adattati a specifiche esigenze produttive. Il tribunale ha riconosciuto che questi documenti rappresentano un patrimonio informativo strategico, frutto di anni di esperienza, ricerca e investimenti. Inoltre, ha valorizzato l’esistenza di accordi di riservatezza, firmati tra le parti, che prevedevano esplicitamente il divieto di divulgazione o riutilizzo dei materiali forniti.
Ciò che rende il caso particolarmente rilevante è il riconoscimento, da parte del giudice, che l’uso indebito di questi materiali da parte della concorrente costituisce concorrenza parassitaria. In altre parole, anziché investire in ricerca e sviluppo propri, la resistente avrebbe sfruttato l’esperienza altrui per ottenere un vantaggio competitivo, rivolgendosi addirittura agli stessi clienti. Questo comportamento è stato considerato illegittimo e lesivo della libertà di concorrenza, oltre che della tutela della proprietà intellettuale.
Per molte società, questo passaggio della sentenza è un forte richiamo all’azione. Proteggere il know-how non è solo un dovere, ma un investimento essenziale per evitare fughe di informazioni e abusi commerciali (approfondisci La tutela dei segreti commerciali: strategie e strumenti per le imprese – Canella Camaiora).
Come tutelare davvero il software e il know-how aziendale
Chi scrive software crea valore. Ma chi commissiona, investe, integra quel software nei propri processi produttivi, crea impresa. E l’impresa va tutelata, fin dal principio.
La sentenza del Tribunale di Brescia lo afferma con chiarezza: il codice sorgente sviluppato su incarico è, salvo patto contrario, di proprietà del committente. Non c’è spazio per ambiguità. Se una soluzione software è stata pensata, voluta e pagata per integrare un processo industriale, appartiene a chi ne ha voluto la creazione.
Ma la forza di questa pronuncia non sta solo nel suo esito. Sta nel ricordarci che la protezione del know-how e della tecnologia parte dai contratti. Non dai tribunali.
Ogni impresa che affida lo sviluppo di un software o la realizzazione di un progetto tecnologico deve fare una scelta consapevole: vuole esserne padrona o ospite? Solo accordi ben scritti e chiari su proprietà, licenze, accesso al codice, segreti industriali, possono garantire libertà e autonomia, anche quando le collaborazioni finiscono.
Il consiglio, quindi, è uno solo: chi sviluppa valore, si doti di strumenti per conservarlo. E la leva giusta non è (solo) tecnologica. È giuridica.
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Data di pubblicazione: 24 Luglio 2025
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Margherita Manca
Avvocato presso lo Studio Legale Canella Camaiora, iscritta all’Ordine degli Avvocati di Milano, si occupa di diritto industriale.