Abstract
Questo breve articolo è un invito alla lettura del saggio del Prof. Federico Ghezzi “Common Ownership, obiettivi ESG e fenomeni collusivi: qualche riflessione sulla recente esperienza americana”, pubblicato sulla Rivista della Regolazione dei mercati (1/2025). Partendo dalla sua analisi, ricostruiamo in chiave divulgativa il contesto in cui le Big Three – BlackRock, Vanguard e State Street – sono finite al centro di un’azione antitrust promossa dall’Attorney General del Texas, Ken Paxton. L’accusa: aver usato il loro ruolo di azionisti rilevanti nelle principali società minerarie di carbone per imporre riduzioni di produzione coerenti con obiettivi “net zero”, con conseguenti effetti anticoncorrenziali. Il testo propone un racconto semplificato dei protagonisti, degli obiettivi ESG e delle accuse, invitando il lettore ad approfondire direttamente lo scritto originale del Prof. Ghezzi.
Le “Big Three”: chi sono e perché pesano così tanto
Nel mondo della finanza globale, pochi nomi esercitano un’influenza paragonabile a BlackRock, Vanguard e State Street. Sono conosciute come le Big Three dell’asset management, e insieme gestiscono patrimoni che superano la somma del PIL di molte nazioni. Il loro mestiere è amministrare il denaro di milioni di risparmiatori, fondi pensione, assicurazioni e istituzioni pubbliche, investendolo in azioni e obbligazioni di società in tutto il mondo.
La loro forza non sta solo nelle dimensioni, ma nel modello di business. Negli ultimi vent’anni, queste società hanno costruito gran parte del loro impero con la gestione passiva: fondi ed ETF che replicano fedelmente un indice di mercato (come l’S&P 500 o il FTSE MIB), senza “selezionare” i titoli ma comprando azioni di tutte le aziende che lo compongono. Questo approccio ha due effetti chiave: riduce i costi per gli investitori e porta i gestori a detenere partecipazioni, anche piccole, in tutte le imprese di un determinato settore.
Ed è qui che nasce il nodo antitrust. Quando lo stesso gestore possiede quote significative in più aziende concorrenti, si crea una situazione definita common ownership o horizontal ownership. Per esempio, nel settore dell’energia, le Big Three possono trovarsi a essere azioniste rilevanti di tutte le principali società minerarie di carbone quotate negli Stati Uniti. Questo significa che, pur senza controllarle direttamente, hanno voce in capitolo nelle assemblee, rapporti regolari con i management e, in alcuni casi, la possibilità di influenzare strategie di lungo periodo.
La dimensione del fenomeno è imponente: in molte società dell’indice S&P 500, le Big Three detengono complessivamente tra il 20% e il 30% dei diritti di voto. Una forza silenziosa, che secondo il giurista di Harvard Einer Elhauge rappresenta “la più grande minaccia anticoncorrenziale dei nostri tempi”.
Non si tratta di demonizzare il loro ruolo. Le Big Three hanno contribuito a democratizzare l’accesso ai mercati finanziari, riducendo i costi di investimento e stabilizzando il capitale delle imprese. Ma la loro presenza simultanea nel capitale di concorrenti diretti pone domande delicate: cosa succede quando la ricerca di un rendimento stabile si intreccia con la possibilità di orientare, anche solo indirettamente, l’andamento di interi settori?
Gli obiettivi ESG: la finanza alla prova della sostenibilità
Negli ultimi anni, tre lettere hanno conquistato il linguaggio della finanza globale: E, S e G. Stanno per Environmental, Social e Governance, e racchiudono un’idea semplice ma ambiziosa: valutare un investimento non solo per il suo rendimento economico, ma anche per il suo impatto sull’ambiente, sulla società e sulla qualità della gestione aziendale.
Per il pilastro “E”, l’urgenza è chiara: contenere il cambiamento climatico riducendo le emissioni di gas serra, proteggere le risorse naturali e orientare l’economia verso modelli a basse emissioni. “S” riguarda le ricadute sociali, dalla tutela dei diritti dei lavoratori alla parità di genere. “G” si concentra sulla qualità della governance e sulla trasparenza.
Le Big Three hanno fatto proprie queste priorità, aderendo a iniziative globali come Climate Action 100+ e la Net Zero Asset Managers Initiative (NZAM), impegnandosi a portare gli asset gestiti verso la neutralità entro il 2050, con tappe intermedie già nel 2030.
Questi impegni si muovono dentro un quadro politico più ampio. In Europa, il Green Deal europeo mira a rendere il continente climaticamente neutro entro il 2050, introducendo regole e strumenti che influenzano direttamente mercati e finanza. Per un grande investitore globale, allinearsi a queste linee guida significa anche anticipare standard regolatori destinati a diventare vincolanti.
Nella pratica, un grande gestore non si limita a selezionare titoli “verdi”, ma punta a influenzare direttamente le imprese partecipate, chiedendo piani compatibili con la transizione energetica. Lo strumento principale è l’engagement: dialogo con il management, proposte assembleari, esercizio del voto su strategie ambientali e sulla trasparenza delle emissioni.
Questa visione ha trovato eco nel mercato e ha spinto molti operatori ad adeguarsi (vedi anche ESG e imprese: come prepararsi alla “transizione sostenibile” – Canella Camaiora). Ma il carattere vincolante di alcuni di questi impegni e la loro applicazione in settori ad alta intensità di emissioni hanno alimentato sospetti: la sostenibilità può diventare un fattore di coordinamento tra concorrenti?
La sostenibilità può davvero rappresentare un rischio per la concorrenza?
Il 27 novembre 2024, Ken Paxton, Attorney General del Texas, insieme ad altri dieci procuratori generali di Stati a guida repubblicana, ha depositato presso la Corte Distrettuale del Texas, Eastern District – Tyler Division una causa contro le Big Three.
Non si tratta di supposizioni: secondo il Texas Complaint, le tre società detengono effettivamente partecipazioni rilevanti nelle nove principali imprese minerarie di carbone quotate negli Stati Uniti, con quote che variano dall’8% al 34,2% e che in sei casi superano il 30%. Queste società, insieme, producono circa il 50% del carbone termico nazionale.
L’accusa sostiene che le Big Three abbiano sfruttato questa posizione per imporre, attraverso l’adesione a iniziative come Climate Action 100+ e la Net Zero Asset Managers Initiative, piani di riduzione della produzione coerenti con l’obiettivo “net zero”.
Gli strumenti contestati includono:
- pressioni dirette sui management per adottare target climatici;
- standard di trasparenza che rendono pubblici i piani produttivi, favorendo un monitoraggio incrociato tra concorrenti;
- voti contrari o minacce di voto contro amministratori non allineati;
- proposte assembleari per legare bonus e compensi ai risultati nella riduzione delle emissioni.
Per Paxton, l’effetto è stato un coordinamento di fatto: meno offerta di carbone termico, prezzi dell’energia più alti e benefici economici per le società partecipate e per i fondi. L’accusa richiama la Section 1 dello Sherman Act e la Section 7 del Clayton Act, chiedendo anche misure strutturali come la cessione delle partecipazioni.
Si tratta della prima applicazione negli USA della teoria della common ownership legata a politiche ESG. Un banco di prova che mette in gioco il confine tra legittima stewardship ambientale e restrizione della concorrenza.
ESG e concorrenza: due pilastri che devono convivere
La vicenda texana mostra che sostenibilità e concorrenza devono essere trattate come pilastri complementari. Le politiche ESG orientano capitali e industria verso obiettivi di lungo periodo, ma vanno strutturate in modo da non restringere la competizione. L’antitrust, a sua volta, deve essere interpretato tenendo conto delle priorità ambientali e sociali.
Il modello europeo, con il Green Deal e la regolazione settoriale, dimostra che obiettivi climatici ambiziosi e mercati concorrenziali possono coesistere, a patto di vigilare su trasparenza, proporzionalità e distinzione tra cooperazione lecita e collusione.
Come osserva Federico Ghezzi, «la vicenda conserverà comunque il suo interesse, perché è la prima in cui la teoria della common ownership, pur attraverso il prisma della sostenibilità, è stata messa alla prova, con un ventaglio di dati ed evidenze che ne hanno mostrato, quantomeno, la plausibilità».
Per chi vuole approfondire dati, norme e scenari di questo caso, la lettura del saggio di Ghezzi è fortemente consigliata: “Common Ownership, obiettivi ESG e fenomeni collusivi: qualche riflessione sulla recente esperienza americana”, Rivista della Regolazione dei mercati, 1/2025.
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Data di pubblicazione: 20 Agosto 2025
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Arlo Canella
Managing & founding partner, avvocato del Foro di Milano e cassazionista, responsabile formazione e ricerca indipendente dello Studio CC®.