Criticare il datore di lavoro è (quasi sempre) un diritto

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Abstract

Nel diritto del lavoro, la libertà di espressione del dipendente è un principio riconosciuto e tutelato. Ma criticare il datore non significa poter dire tutto: secondo la giurisprudenza, la critica è legittima solo se rispetta i canoni di verità, continenza e pertinenza. In questo articolo analizziamo i confini giuridici del dissenso, anche quando si manifesta online o tramite recensioni negative.

Quando il dissenso diventa un problema

Immagina questa scena: il tuo superiore ti assegna un’attività da svolgere con una procedura che ritieni poco sicura o poco strategica. Oppure, durante una riunione, non condividi la scelta organizzativa del capo e decidi di dirlo apertamente.

Sono situazioni comuni in azienda. Eppure, capita che simili prese di posizione si traducano in contestazioni disciplinari, talvolta anche in licenziamenti.

Ma fino a che punto il lavoratore ha il diritto di dissentire? E quando, invece, rischia di superare il limite?

La risposta, come spesso accade nel diritto del lavoro, dipende dal modo e dal contesto.

Dove si ferma la libertà di espressione

Il diritto di critica del lavoratore affonda le sue radici nei princìpi costituzionali di libertà di espressione. L’art. 21 della Costituzione italiana garantisce a “tutti il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”. Lo stesso principio è ribadito dall’art. 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU), che tutela la libertà di espressione in ambito sovranazionale. Anche l’art. 1 dello Statuto dei lavoratori conferma questa tutela, riconoscendo il diritto di opinione all’interno dei luoghi di lavoro.

Ma come si applicano questi diritti nella realtà aziendale? La giurisprudenza della Cassazione ha progressivamente chiarito quando la critica del lavoratore è legittima e quando, invece, può trasformarsi in una condotta sanzionabile.

In diverse sentenze (Cass. n. 12420/2008, n. 1434/2015, n. 38215/2021), la Corte ha riconosciuto che la manifestazione del pensiero critico comporta, per sua natura, un giudizio di disapprovazione, che può incidere sull’onore o sulla reputazione di chi ne è destinatario. Tuttavia, ciò non significa che la critica debba essere automaticamente censurata:

“[…] qualunque critica rivolta a una persona è idonea a incidere sulla sua reputazione e, tuttavia, escludere il diritto di critica ogniqualvolta leda, sia pure in modo minimo, la reputazione altrui, significherebbe negare il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero”.

In altre parole, la critica può anche risultare sgradita o pungente, ma resta lecita finché non scivola nell’insulto, nella calunnia o nella provocazione gratuita.

Critica lecita o sanzionabile? I tre criteri della Cassazione

La giurisprudenza ha individuato tre parametri fondamentali che delimitano l’esercizio legittimo del diritto di critica da parte del lavoratore. Questi criteri — frequentemente richiamati dalla Corte di Cassazione — definiscono il confine tra dissenso legittimo e condotta sanzionabile:

  • Continenza sostanziale (veridicità):
    La critica deve basarsi su fatti veri, o quantomeno ritenuti tali in buona fede dal lavoratore. Se i rimproveri poggiano su circostanze inesistenti o deliberatamente falsate, si entra nel terreno della diffamazione o della calunnia, e il diritto di critica viene meno.
  • Continenza formale:
    Il linguaggio utilizzato deve essere rispettoso nella forma, anche quando il contenuto esprime un disaccordo netto. Sono ammesse espressioni dure o polemiche, purché non degenerino in attacchi personali, volgarità o insulti gratuiti.
    Supera questo limite, ad esempio, il lavoratore che attribuisce all’azienda o ai dirigenti qualità disonorevoli, usando termini diffamatori o scurrili (Cass. n. 1379/2019).
  • Pertinenza:
    Il dissenso dev’essere rilevante e attinente al contesto lavorativo. È legittima la critica che riguarda l’organizzazione del lavoro, le condizioni operative o le modalità gestionali; non lo è quella rivolta alla sfera personale del superiore o ad aspetti estranei al rapporto di lavoro.

Il rispetto congiunto di questi tre requisiti — forma civile, contenuto vero, contesto rilevante — colloca la condotta del lavoratore nell’alveo del diritto di critica tutelato dall’ordinamento.

Una frase aspra ma veritiera e rivolta a un tema di reale interesse aziendale può essere pienamente lecita. Al contrario, un’espressione apparentemente educata, ma fondata su falsità o mirata a ledere la reputazione del datore, perde ogni copertura giuridica.

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Recensioni e commenti sui social: si può criticare il datore online?

Non è solo il contenuto della critica a rilevare, ma anche il contesto in cui viene espressa.
Un conto è manifestare il proprio dissenso in un confronto diretto con il superiore; ben diverso è pubblicare un post sui social network o lasciare una recensione online.

Secondo la Cassazione, la diffusione potenzialmente illimitata dei contenuti online accresce il rischio lesivo per l’immagine dell’azienda, con possibili conseguenze anche sul piano penale. La sentenza n. 10280/2018 ha chiarito che un messaggio denigratorio pubblicato su piattaforme come Facebook o LinkedIn non è paragonabile a un commento espresso tra colleghi, proprio per l’effetto amplificatore del mezzo. In questi casi, viene meno il requisito della “continenza”, anche quando il contenuto resti formalmente espresso in tono pacato.

Di segno opposto è la recente pronuncia della Cassazione n. 5331 del marzo 2025.
Un lavoratore aveva lasciato una recensione negativa sull’azienda, scrivendo semplicemente: «Perdete ogni speranza», accompagnata da una sola stella. La Suprema Corte, cassando la decisione della Corte d’Appello, ha ritenuto che l’espressione rientrasse nel legittimo esercizio della libertà di critica, in quanto:

«[…] la volgarità o l’infamia delle espressioni adoperate non può essere misurata solo sulle immagini che esse evocano, specie ove si tratti di citazioni tratte dalla letteratura […] dovendo ogni frase essere letta cercando di cogliere il significato concreto della critica espressa, al di là della citazione o dell’assimilazione a cui si fa ricorso».

La Corte ha quindi sottolineato che non è sufficiente un tono amaro o ironico per configurare un illecito, purché non vi siano espressioni oggettivamente diffamatorie o offensive.

Diversa ancora è la valutazione delle conversazioni private, come quelle su WhatsApp. In questi casi, la giurisprudenza tende a riconoscere una maggiore libertà espressiva, a meno che i messaggi non contengano insulti gravi o vengano diffusi all’esterno, compromettendo così la riservatezza del canale e aggravando il danno potenziale.

In sintesi, criticare il datore di lavoro non equivale automaticamente a insubordinazione. È un diritto, garantito dal nostro ordinamento, ma che deve essere esercitato con misura. Se un lavoratore riceve una contestazione disciplinare per aver espresso dissenso, occorre verificare se le sue parole rispettavano i tre canoni fondamentali: verità, pertinenza e continenza. In tal caso, potrebbe disporre di validi strumenti per difendersi o impugnare il provvedimento.

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Data di pubblicazione: 30 Settembre 2025

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Debora Teruggia

Laureata presso l'Università degli Studi di Milano, praticante avvocato appassionato di Diritto del Lavoro e Diritto di Famiglia.

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