Abstract
Nel mondo iperconnesso dei social media, anche i professionisti della salute sono sempre più presenti online. Ma un medico può davvero fare l’influencer? E se lo fa, fino a che punto può spingersi senza violare la legge o il codice deontologico? Questo articolo approfondisce i confini normativi e professionali della comunicazione sanitaria digitale, esplorando i rischi dell’abuso di professione, i limiti della pubblicità in ambito medico e le regole da rispettare quando si usano i social per divulgare o – più insidiosamente – per promuoversi.
Health influencer: chi sono e cosa fanno?
Li troviamo dappertutto: su Instagram, YouTube, TikTok. Parlano di benessere, cibo sano, fitness, biohacking, skincare. Raccontano ricette, abitudini di vita, meditazione, tecniche di respirazione, digiuni intermittenti e integratori “miracolosi”. Alcuni hanno competenze scientifiche, altri no. Sono gli health influencer, e oggi sono tra le figure più influenti nel plasmare opinioni – e scelte – in materia di salute e stili di vita.
Ma chi è davvero un health influencer? Non esiste una definizione giuridica. Non è una categoria protetta né una professione regolamentata. È piuttosto un ruolo comunicativo: chiunque, anche senza qualifiche sanitarie, può costruirsi una credibilità in rete condividendo contenuti legati al benessere. “Health”, del resto, è un concetto ampio: può voler dire cucina naturale, prevenzione, sport, cura del corpo o anche psicologia positiva. Ed è proprio questa ambiguità ad aver creato una zona grigia comunicativa sempre più popolata.
Nel 2024, secondo il report IAP-Almed, sono stati analizzati oltre 145.000 contenuti pubblicati da 333 influencer italiani, di cui più di 8.000 a carattere promozionale. Solo il 4% è risultato esplicitamente in contrasto con le regole sulla trasparenza pubblicitaria, ma circa il 20% rientra in quella che lo stesso report definisce una “zona grigia”: si tratta di contenuti in cui la natura pubblicitaria è comunicata in modo ambiguo, poco evidente o collocata in posizioni marginali, come hashtag nascosti nelle Instagram stories o messaggi commerciali inseriti alla fine di lunghi reel.
Questi numeri riguardano in particolare alcuni settori-chiave dell’influencer marketing: beauty, fashion, family e finance. Non si tratta di ambiti regolamentati come la sanità o la farmaceutica, ma – per molti versi – si avvicinano pericolosamente alla sfera della salute.
Nel settore beauty, ad esempio, oltre il 26% dei contenuti promozionali è stato classificato come non pienamente conforme. L’osservazione qualitativa svolta dagli autori riguarda principalmente la difficoltà tecnica nel rendere trasparente la comunicazione pubblicitaria nei formati video. Tuttavia, da un’analisi esterna e indipendente – che qui proponiamo come riflessione critica – emerge una dinamica più sottile: molti beauty influencer adottano stili narrativi e visivi che richiamano la pratica clinica. Camici, ambientazioni da studio medico, terminologia parascientifica. Non si dichiarano medici, ma comunicano come se lo fossero. Il rischio? Indurre il pubblico a percepire una competenza sanitaria che in realtà non c’è.
Fenomeni simili si riscontrano anche nel settore food, soprattutto nel segmento “family”. Qui la promozione di prodotti destinati ai bambini (alimenti, integratori, dispositivi) si intreccia spesso con narrazioni intime e familiari, dove la figura dell’influencer-mamma si sovrappone a quella dell’educatrice, della nutrizionista, della guida. E anche in questo caso, il pubblico può confondere l’esperienza personale con il consiglio professionale.
E se già questo è problematico in ambiti come beauty o lifestyle, diventa potenzialmente pericoloso quando il contenuto tocca direttamente la salute. Perché un influencer che si propone come esperto senza esserlo, o che suggerisce soluzioni per disturbi specifici, può sfiorare l’abuso di professione medica (art. 348 c.p.) se simula, anche indirettamente, attività riservate a personale sanitario.
Ma attenzione: non tutti si improvvisano. Sempre più spesso, tra gli health influencer troviamo professionisti veri e abilitati: medici, farmacisti, infermieri. Persone che hanno studiato, sono iscritte agli albi, e decidono di usare i social per fare divulgazione, educare, rispondere a bufale o – talvolta – collaborare con i brand.
E proprio qui si apre la questione più delicata: un medico può fare l’influencer? E se sì, a quali condizioni legali e deontologiche?
Professionisti veri (e vincolati): cosa può fare un medico influencer?
Negli ultimi anni, sempre più medici e operatori sanitari hanno iniziato a comunicare attivamente sui social, spesso con grande successo. Non si limitano a commentare articoli scientifici: spiegano patologie, parlano di prevenzione, mostrano casi clinici, rispondono alle domande del pubblico. Alcuni lo fanno per pura divulgazione, altri in modo più strutturato, anche attraverso collaborazioni con brand del mondo salute.
Ma un medico può davvero fare l’influencer? E, se lo fa, fino a che punto può spingersi senza violare la legge o il codice deontologico?
La risposta non è univoca, ma il quadro normativo è molto chiaro su alcuni punti fondamentali. In Italia, i medici e gli altri professionisti sanitari sono soggetti a vincoli più rigidi rispetto a qualsiasi altro influencer. La ragione è semplice: hanno un dovere pubblico di indipendenza, obiettività e tutela della salute.
Il Decreto Legislativo 219/2006, che regola la pubblicità dei medicinali, stabilisce un principio netto: è vietata qualsiasi forma di promozione al pubblico di farmaci soggetti a prescrizione medica. La definizione stessa di pubblicità è amplissima: comprende “qualsiasi azione d’informazione, di ricerca della clientela o di esortazione, intesa a promuovere la prescrizione, la fornitura, la vendita o il consumo di medicinali” (art. 113). In altre parole, anche un semplice post su Instagram può costituire pubblicità, se di fatto incoraggia l’uso di un determinato farmaco.
Ma non si tratta solo di rispettare la legge. Per chi è iscritto a un ordine professionale, entrano in gioco anche i principi deontologici. Il Codice di Deontologia Medica vieta espressamente al medico di concedere “patrocinio a forme di pubblicità promozionali finalizzate a favorire la commercializzazione di prodotti sanitari o di qualsivoglia altra natura”. In concreto, un medico non può prestare il proprio nome, volto o reputazione per promuovere un prodotto, neppure se si tratta di un dispositivo approvato, di un integratore diffuso o di un cosmetico “scientificamente testato”.
E allora, cosa può fare un medico influencer?
Molto, ma con rigore. Può parlare di salute, spiegare malattie, promuovere buone pratiche di prevenzione, combattere la disinformazione. Può persino raccontare il proprio approccio clinico, condividere studi, partecipare a eventi formativi. Tutto questo è divulgazione, non pubblicità.
Ma nel momento in cui si associa un prodotto a un contenuto a pagamento, o si collabora con un brand, la comunicazione cambia natura e diventa promozionale. E, per un medico, è vietata (vd. anche: Comunicare la salute online: regole, limiti e responsabilità per i medici sui social – Canella Camaiora).
Ma vediamo meglio questo “concetto” della collaborazione con aziende e brand.
Cosa succede quando un medico collabora con un brand
Nell’immaginario collettivo, un medico che racconta la propria esperienza con un dispositivo medico o che consiglia un farmaco da banco può apparire come una forma efficace di comunicazione: rassicurante, autorevole, umana.
Ma quando quel medico ha ricevuto un compenso, e il prodotto è ben inquadrato nel frame del contenuto, non si tratta più di informazione, bensì di pubblicità sanitaria.
Non si può pubblicare un video in cui compare un farmaco o un dispositivo medico, tantomeno con il volto, il camice o la voce di un medico, se prima non è stato tutto autorizzato dal Ministero della Salute. Nemmeno se l’intenzione è solo quella di “educare”. Nemmeno se il contenuto è, a tutti gli effetti, corretto dal punto di vista scientifico.
Il punto è questo: normativamente, è il prodotto che comanda… medicinali, parafarmaci, dispositivi, integratori. Sono soggetti a regole specifiche e vanno rispettate da tutti, anche dai medici. (Approfondisci: Comunicazione sanitaria o pubblicità medica? Limiti e regole – Canella Camaiora)
Qualsiasi messaggio rivolto al pubblico che promuove un farmaco OTC, un SOP o un dispositivo medico deve essere autorizzato prima della sua diffusione. È il Ministero che valuta non solo le parole, ma anche le immagini, i suoni, il tono, i link, il contesto. E non basta che il contenuto sia “vero”. Deve essere esattamente identico a quello approvato. Nessuna variazione, nessuna estemporaneità, nessun entusiasmo.
A questo si aggiunge un secondo principio, ancora più sottile: il messaggio deve essere statico (Cfr. Linee guida sulla pubblicità sanitaria dei medicinali di automedicazione (OTC) e dei medicinali senza obbligo di prescrizione (SOP) – Ministero della Salute)
In altre parole, una volta pubblicato, non può essere modificato, commentato o alterato da nessuno. Nemmeno dagli utenti. È per questo che, nei social media, vanno disattivati commenti, like, condivisioni e reazioni.
Dove ciò non è tecnicamente possibile, deve comparire un disclaimer obbligatorio che precisi che l’azienda si dissocia da ogni interazione dell’utente. La pubblicità sanitaria, insomma, non può diventare una conversazione.
Deve restare una comunicazione unidirezionale e sotto controllo (il che, francamente, è impossibile sui social).
E poi c’è il tema dei testimonial. Se il volto che racconta il prodotto è quello di una persona famosa, la questione è già delicata.
Ma se quel volto è quello di un medico, la questione diventa critica. Le Linee guida ministeriali sui dispositivi medici ammettono la possibilità di usare testimonial, richiamando la giurisprudenza consolidata su un punto francamente assurdo, solo se non esprimono alcuna forma di preferenza, anche implicita, e se la sola presenza non genera un rischio di suggestione o uso improprio.
In pratica, sarebbe ammessa la presenza di un testimonial in uno spot, ma non deve mai sembrare che stia usando il prodotto o approvandolo, nemmeno solo con lo sguardo.
Per i medici, comunque, tale endorsement è vietato come abbiamo visto dalla deontologia: Il medico non può concedere il proprio nome, la propria immagine o il proprio operato a fini di pubblicità commerciale di prodotti di qualunque natura. E questo vale sempre.
Sarebbe praticamente assurdo che il Ministero autorizzasse un testimonial medico… Il medico dovrebbe essere scientifico e neutrale, perché la sua funzione è tutelare la salute, non avallare prodotti. E lo stesso principio vale per farmacisti, infermieri, biologi nutrizionisti.
Ma allora perché uno dovrebbe fare l’health influencer? Per promuovere se stesso? Beh, sì.
E se il medico facesse l’influencer per promuovere se stesso?
Che un medico, un infermiere, un fisioterapista o una nutrizionista faccia divulgazione scientifica sui social è del tutto lecito. È legittimo che un professionista sanitario voglia condividere conoscenze, educare il pubblico, contrastare le fake news. E, com’è naturale, più questa attività è ben fatta, più il pubblico cresce. Follower, like, visibilità. Fino a diventare, di fatto, un health influencer.
Ma proprio nel momento in cui cresce la visibilità, cresce anche la responsabilità. Perché non esiste un vuoto normativo: al contrario, il professionista sanitario che comunica online è sottoposto contemporaneamente a una pluralità di regole, che derivano:
- dal proprio codice deontologico,
- dal Codice del Consumo,
- dalla normativa generale sulla pubblicità sanitaria,
- dalle linee guida AGCOM sulla trasparenza nei contenuti promozionali,
- e oggi anche dal Codice di condotta degli influencer, elaborato da AGCOM con rinvio secco alla Digital Chart IAP (Approfondisci: Il “mantra” della trasparenza nella nuova Digital Chart IAP – Canella Camaiora)
È un campo minato. Perché la comunicazione professionale non può mai diventare promozione aggressiva, comparativa, ingannevole, allusiva o emotivamente suggestiva. E, quando il medico parla non di un prodotto ma di sé stesso, la questione si fa ancora più delicata.
Promuoversi come medico, in teoria, si può. La pubblicità sanitaria è stata liberalizzata dal 2006 (con il cosiddetto decreto Bersani), e il Codice deontologico attuale ammette la comunicazione informativa.
Ma pone una condizione imprescindibile: che sia “funzionale all’oggetto, veritiera e corretta”, e che non sia “equivoca, ingannevole o denigratoria” (art. 4, comma 3, D.P.R. 137/2012).
È il classico campo di libertà vigilata. Un medico può pubblicare contenuti che presentano la propria attività, la sede dello studio, le prestazioni offerte, gli orari, le modalità di prenotazione, anche i costi.
Può curare la propria immagine online, aprire un sito, un profilo social, una newsletter. Può anche spiegare i propri approcci clinici.
Non può costruire una narrazione da marchio commerciale: “che più bianco non si può”.
Non può usare testimonial, non può usare pazienti veri o finti, non può mostrare immagini o sequenze di “prima e dopo” il trattamento (come stabilito anche dalle Linee guida del Ministero della Salute 2025, che vietano rappresentazioni visive atte a suggerire in modo comparativo o emotivo gli effetti di un trattamento sanitario).
Insomma, non può ostentare risultati clinici, non può proporre tariffe “acchiappa-clienti”.
Un caso rilevante, che ha fatto giurisprudenza, giungendo al vaglio della Cassazione dopo un lunghissimo iter giudiziario, è quello della pubblicità ingannevole di un odontoiatra.
Nel 2013, questi promuoveva la propria attività attraverso una massiccia campagna pubblicitaria locale: volantini, manifesti stradali, litografie sui mezzi pubblici. I materiali erano intestati a una società, apparentemente terza, ma sostanzialmente riconducibile direttamente al medico stesso.
Il messaggio pubblicitario era fortemente improntato all’aspetto economico: “servizio low cost”, “gratis”, “impianti dentali a forfait”.
L’Ordine dei Medici della Spezia, che già aveva sanzionato il medico nel 2012, lo ha nuovamente sospeso nel 2014 per violazione del Codice deontologico, giudicando la comunicazione commerciale, emozionale e priva dei requisiti minimi di trasparenza e veridicità.
Il medico ha fatto ricorso, sostenendo che la pubblicità fosse lecita secondo il decreto Bersani.
Ma nel settembre 2024, la Corte di Cassazione ha messo un punto fermo:
“Anche dopo la liberalizzazione introdotta dal D.L. 223/2006, gli Ordini professionali conservano il potere di vigilare sulla trasparenza e sulla veridicità dei messaggi pubblicitari dei professionisti sanitari.”
E ha confermato la sospensione, sottolineando che la comunicazione basata su sconti non parametrici, suggestioni emozionali e riferimenti opachi a prestazioni sanitarie personalizzate viola la ratio della normativa pubblicitaria (Cass. civ., Sez. II, Ord., ud. 27/06/2024 – dep. 27/09/2024, n. 25820).
In pratica, la Corte legittima il diritto del professionista a promuoversi, anche in termini pubblicitari, ma chiarisce che per il medico valgono le stesse regole che valgono per tutti. Anzi: occorre fare ancora più attenzione.
Ad esempio: come si può promuovere un impianto dentale a forfait, se si tratta per forza di cose di una prestazione personalizzata e soggetta alle indicazioni cliniche individuali?
L’odontoiatra in questione è stato sospeso e sanzionato. E i provvedimenti sono stati tutti confermati dalla Suprema Corte.
Insomma, con i social, le stories, i video e i contenuti sponsorizzati, il confine si è fatto molto fragile… ma le norme resistono.
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Data di pubblicazione: 15 Ottobre 2025
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Arlo Canella
Managing & founding partner, avvocato del Foro di Milano e cassazionista, responsabile formazione e ricerca indipendente dello Studio CC®.