“Occhi Spaccanti”: davvero si può registrare un marchio e usarlo come “scudo sociale”?

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Abstract

Cosa succede quando una frase diventata virale finisce registrata come marchio? L’articolo analizza il caso “OCCHI SPACCANTI”, portato alla ribalta da Raoul Bova, mettendo a fuoco i limiti e le ambiguità del diritto dei marchi nel contesto digitale. Attraverso un confronto con casi celebri – come quello di Banksy – si esplora la linea sottile tra uso legittimo e mala fede, tra tutela del segno distintivo e abuso difensivo. Con uno sguardo critico alla normativa vigente, si riflette sulle implicazioni pratiche per chi intende tutelare espressioni nate sul web, ma anche sulla necessità di un intervento legislativo per colmare quello che sembra essere – a tutti gli effetti – un vuoto normativo.

Tormentoni registrati: il caso “Occhi Spaccanti”

C’è qualcosa di estremamente ironico (e forse sbagliato?!) nel fatto che uno dei tormentoni dell’estate – le parole “occhi spaccanti” – sia finito al centro non solo del chiacchiericcio mediatico, ma anche dell’attenzione dell’UIBM (Ufficio Italiano Brevetti e Marchi).

Abbiamo appreso dalla stampa, e metabolizzato (o almeno abbiamo cercato di farlo), di come Raoul Bova abbia depositato domande di marchio per l’espressione “OCCHI SPACCANTI” (a livello nazionale e comunitario) e per la più estesa dicitura “BUONGIORNO ESSERE SPECIALE DAL SORRISO MERAVIGLIOSO E DAGLI OCCHI SPACCANTI” (anche in questo caso, a livello italiano ed europeo).

Poco o nulla importa, in questa sede, esaminare le descrizioni dei marchi rese al momento dei depositi (su cui pure si potrebbero fare delle riflessioni dottrinali) e non vogliamo nemmeno indagare il tema – maliziosamente stuzzicante – di come soggetti terzi, quasi contestualmente, abbiano già cercato di accaparrarsi almeno una delle diciture per delle classi merceologiche lasciate scoperte dal noto attore (cfr. il deposito italiano nr. 302025000130144) e/o mediante accompagnamento e rivisitazione grafici del medesimo wording (quest’ultimo caso è stato peraltro già stato attenzionato dai mass media).

Quello che invece ci interessa è l’obiettivo dichiarato di Raoul Bova: “stoppare la diffusione” delle espressioni in questione.

La funzione dei marchi secondo la Legge (e il caso del deposito in mala fede)

Quello del celebre attore, dunque, si profilerebbe come un intento apparentemente difensivo, volto a contenere la diffusione incontrollata sui social di un’espressione nata in tutt’altro contesto, poi rilanciata (e distorta) nel vortice virale del gossip.

Al di là delle note di colore che contraddistinguono la vicenda, il punto etico-giuridico – oltre a coinvolgere più precetti normativi – è di soluzione tutt’altro che banale: può davvero un marchio essere registrato solo per “vietare” agli altri di usare una certa frase, e non per contraddistinguere prodotti o servizi? In altri termini: il diritto dei marchi può essere piegato a scopi che non gli sono propri, divenendo uno strumento di difesa personale più che di identificazione imprenditoriale?

L’interrogativo non è nuovo e porta inevitabilmente alla mente il caso, ben noto (non solo) ai tecnici del settore e più articolato, dello street-artist Banksy.

L’artista (o collettivo di artisti) ha più volte cercato di tutelare senza svelarsi alcune delle sue opere più iconiche, depositandole come altrettanti marchi per il tramite di agenti fiduciari. Il risultato dell’espediente, però, è stato tutt’altro che pacifico: diversi terzi hanno chiesto l’annullamento di quei depositi, sostenendo che fossero stati eseguiti in mala fede, poiché non vi era alcuna reale intenzione di utilizzare il segno nel mercato, ma solo di bloccarne l’uso da parte altrui.

L’asserzione critica può cogliere effettivamente nel segno, dal momento che il diritto dei marchi concede un monopolio esclusivo non come premio, ma come strumento funzionale a distinguere beni e/o servizi. Se manca l’intento di uso reale, viene meno la stessa ragion d’essere dell’istituto, e sembra condivisibile sostenere che l’assenza dell’intento d’uso effettivo debba essere equiparata a un utilizzo improprio del diritto, e dunque a mala fede invalidante al momento del deposito (cfr. anche l’art. 19, comma 2, CPI).

I precedenti giurisprudenziali

Le cronache giudiziali ci restituiscono esiti contraddittori. Cominciamo questa brevissima carrellata con le azioni intentate contro i marchi europei di Banksy.

Il MUE n. 012575155 (riproduzione grafica del celebre “Flower Thrower” a Beit Sahour), registrato in data 29/08/2014, è stato poi annullato nel settembre 2020 (Decision on Cancellation No 33 843 C). La Divisione incaricata (Moisescu, Clarke, Villani) ha ritenuto che il marchio fosse stato depositato – in realtà – al solo scopo di proteggere il diritto d’autore di Banksy, quindi in “aggiramento” di quella che è l’effettiva funzione dell’istituto, e quindi in mala fede; il marchio, d’altro canto, non era stato concretamente utilizzato come segno distintivo. Nessun ricorso è stato proposto e la decisione è divenuta definitiva (ne avevamo già parlato in questo articolo, “BANSKY: è proprio vero che ha perso un suo marchio?“).

Diversa, invece, la sorte del MUE n. 017981629 (riproduzione grafica di uno degli scimpanzé dello stencil multiplo comparso a Brighton nel 2002). Anch’esso invalidato in primo grado (Decision on Cancellation No 39 873 C – Moisescu, Clarke, Villani), il segno in parola è stato poi “riabilitato” in sede di EUIPO Boards of Appeal (case R 1246/2021-5 – Melgar, Ocquet, Rizzo). Senza neanche dover scavare troppo fra le righe, la pronuncia di secondo grado evidenzia come – contrariamente a quanto avviene per esempio negli USA – il registrante, in Unione Europea, abbia cinque anni di “periodo di grazia” prima di dover cominciare a utilizzare effettivamente il segno contestato, ragione per cui (in questo caso) il deposito in mala fede non poteva dirsi provato. Questo secondo marchio, di conseguenza, è ancora valido ed efficace.

Nel pervenire a questa decisione, il Board of Appeal composto da Melgar, Ocquet e Rizzo cita quello che – allo stato – è il più alto precedente in materia, ovvero la sentenza resa dalla Corte di Giustizia nella causa Sky plc e altri contro Skykick UK Limited e Skykick Inc (C-371/18).

In questa decisione, nella parte dispositiva, la Corte conferma a chiare lettere che una domanda di marchio senza alcuna intenzione di utilizzarlo per i prodotti e servizi oggetto della registrazione costituisce un atto di malafede, a norma di tali disposizioni, se il richiedente tale marchio aveva l’intenzione o di pregiudicare gli interessi di terzi in modo non conforme alla correttezza professionale o di ottenere, senza neppure mirare ad un terzo in particolare, un diritto esclusivo per scopi diversi da quelli rientranti nelle funzioni di un marchio.

Nondimeno, proprio la stessa sentenza non manca di ricordare come “il richiedente un marchio non è tenuto ad indicare, né persino a conoscere, con precisione, alla data di deposito della propria domanda di registrazione o dell’esame della stessa, l’uso che farà del marchio richiesto ed esso dispone di un termine di cinque anni per dare inizio ad un uso effettivo conforme alla funzione essenziale del suddetto marchio”!

Ecco che, come spesso avviene, il diritto si rivela una matassa non facile da sbrogliare.

“Occhi Spaccanti” è un marchio valido?

Il principio etico-giuridico è piuttosto chiaro: una domanda di marchio presentata senza reale intenzione di utilizzo dovrebbe essere considerata depositata in mala fede, soprattutto se finalizzata a ottenere un’esclusiva per scopi diversi da quelli propri di un marchio. In altre parole, e tornando al caso che fa da cornice a questo contributo: il marchio non nasce per bloccare un meme o un hashtag, ma per identificare un’origine economica.

E tuttavia, in paesi come l’Italia in cui non esiste l’obbligo – al momento del deposito – di fornire all’UIBM una “dichiarazione d’uso” e si hanno a disposizione ben cinque anni prima di dover fare partire l’uso effettivo dei segni ritualmente depositati, come affermare che in casi come quello di Raoul Bova ci si trovi ineluttabilmente davanti a depositi eseguiti in malafede? Forse che il noto attore, fra un paio d’anni, non potrebbe decidere di vendere magliette (classe merceologica n. 25) griffate “OCCHI SPACCANTI”?! O magari far distribuire quaderni per la scuola (classe merceologica n. 16) con stampigliato sopra l’ormai trito e ritrito tormentone. O, ancora, utilizzare il marchio per dare il nome a un’accademia di recitazione (classe merceologica n. 41). E si potrebbe andare avanti esemplificando all’infinito.

Certo, restano le dichiarazioni rese ai mass media, spesso fra l’altro non da parte del diretto interessato, ma solo di professionisti collaboratori; non erano delle dichiarazioni giurate o chissà cosa, si sarebbe potuto trattare, banalmente, di boutade pubblicitarie: avrebbe davvero senso – quindi – considerarle la prova provata di depositi eseguiti solo e soltanto in aggiramento della funzione tipica del marchio d’impresa? E se ci fosse stato in effetti questo intento, ma anche quello di utilizzare davvero i marchi in questione?

In assenza di prove univoche e certe e alla luce del nostro ordinamento (che – come detto – concede “cinque anni di grazia” per fare partire lo sfruttamento effettivo di un marchio depositato), ad avviso di chi scrive porsi questi interrogativi rischia di rivelarsi uno sterile processo alle intenzioni: chi vivrà vedrà, e – mal che vada – fra cinque anni ci ritroveremo a constatare il prolungato non uso dei segni in parola.

Nel mentre – la speranza è l’ultima a morire – il Legislatore potrebbe anche prendere atto del fatto che siamo per certi versi in presenza di un baco normativo, e magari porvi rimedio.

E, per la serenità di tutti e con buona pace di Raoul Bova: a fini di celia e senza utilizzarle come “marchio”, guardate che le frasi di cui stiamo parlando sono tranquillamente fruibili da chiunque! I miei, per esempio, sono sicuramente “OCCHI SPACCANTI”!! (Scherzo, eh).

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Data di pubblicazione: 11 Novembre 2025
Ultimo aggiornamento: 12 Novembre 2025

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Avv. Daniele Camaiora

Daniele Camaiora

Senior Partner dello studio legale Canella Camaiora, iscritto all’Ordine degli Avvocati di Milano e Cassazionista, appassionato di Nuove Tecnologie, Cinema e Street Art.

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