Non tutte le diffide riescono col buco: marchi, diffide e denigrazione commerciale

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Abstract

Una serie di diffide inviate da titolari di marchi esteri ai partner italiani di un noto gruppo musicale ha generato sospensioni, cancellazioni e pressioni commerciali mascherate da azioni di tutela. Il Tribunale di Milano, con l’ordinanza del 21 luglio 2025, ha chiarito i limiti legittimi dell’uso difensivo del marchio, riconoscendo che anche una comunicazione formalmente vera può diventare denigratoria se priva di contesto e trasparenza. L’articolo analizza come, in ambito di proprietà intellettuale, la linea tra difesa del segno e concorrenza sleale sia più sottile di quanto sembri, e quali criteri adottare per evitare che una diffida si trasformi in un illecito.

Le diffide per uso improprio del marchio possono essere considerate sleali?

La vicenda è lineare, e proprio per questo significativa.

Da un lato, un gruppo musicale italiano ben noto al grande pubblico, titolare di marchi nazionali consolidati e di un nome artistico utilizzato ininterrottamente fin dagli esordi. Dall’altro, alcune società estere che vantano la registrazione del medesimo segno in diversi Paesi. Il conflitto non verte solo su chi abbia diritto a usare il nome, ma anche su come si decida di tutelarlo: in particolare, l’invio di diffide formali, spesso carenti nel contenuto, si rivela una scelta discutibile. Su questo punto si è pronunciato il Tribunale di Milano con l’ordinanza del 21 luglio 2025.

Tutto prende avvio da un contenzioso legato a un nome artistico storico, identificato da marchi registrati in Italia. Le società estere, forti delle loro registrazioni internazionali, danno il via a una campagna sistematica di diffide rivolte ai partner strategici italiani della band – in particolare emittenti televisive e organizzatori di eventi – ogni volta che si preannunciano concerti o programmi registrati in Italia, ma potenzialmente visibili anche all’estero.

Sebbene presentate come azioni di tutela legittima dei marchi esteri, queste comunicazioni producono effetti molto concreti: sospensioni e rinvii. Diverse emittenti italiane, inclusa la RAI, scelgono la via della prudenza e sospendono la partecipazione della band. In un caso citato nell’ordinanza, relativo a un evento a Malta, a una prima email di contestazione seguono quattro diffide con minacce di azioni legali, indirizzate anche a media partner e soggetti istituzionali.

La band reagisce presentando un ricorso cautelare, ma il primo esito non è favorevole: le diffide vengono considerate come semplici rivendicazioni e non se ne riconosce un effetto pregiudizievole. La band però insiste, fondando il proprio reclamo su due punti fermi: l’uso storico del nome sin dagli anni Settanta e la titolarità di marchi nazionali validi e rinnovati. Da qui la critica alla prima decisione, giudicata eccessivamente formalistica per non aver colto l’impatto concreto e lesivo delle diffide rivolte ai partner italiani (come RAI, Mediaset o emittenti radiofoniche di settore), e per aver invece fondato il rigetto sul solo presupposto dell’esistenza di marchi esteri e della possibilità che i programmi fossero trasmessi anche fuori dall’Italia.

Quando la diffida diventa denigrazione

Dopo il rigetto del primo ricorso cautelare, il gruppo musicale non si arrende e presenta reclamo. Con ordinanza del 21 luglio 2025, il Tribunale di Milano cambia radicalmente prospettiva: rivaluta l’effetto delle diffide sull’attività della band e ne riconosce il carattere lesivo. Il Collegio, infatti, valorizza le sospensioni concretamente documentate, richiama la pendenza all’estero di un procedimento di annullamento su uno dei marchi azionati (mentre altri risultano già dichiarati nulli in Bulgaria) e sottolinea i limiti imposti dall’art. 6-bis della Convenzione di Parigi in caso di presenza di un segno notorio in Italia.

La misura viene così accolta: viene ordinata l’inibitoria immediata dall’invio di nuove diffide a soggetti residenti in Italia per eventi svolti sul territorio nazionale (anche se trasmessi all’estero), con previsione di penale per ogni violazione e condanna alle spese.

Il Tribunale sottolinea che le diffide, quando sono rivolte a clienti, fornitori, media e stakeholder, non possono essere considerate semplici comunicazioni tra privati: diventano veri e propri messaggi al mercato, capaci di incidere direttamente sul patrimonio relazionale dell’impresa concorrente. In questo contesto, il criterio applicato è quello dell’informazione corretta, completa e non fuorviante.

Nel caso concreto, il periculum in denegatione viene riconosciuto per tre ragioni:

  • le diffide enfatizzano la titolarità dei marchi esteri, senza menzionare la pendenza di procedimenti di nullità né le decisioni già intervenute;
  • tacciono i limiti derivanti dall’art. 6-bis CUP, omettendo che il segno italiano è storico e notorio, suggerendo così – per omissione – una protezione assoluta inesistente;
  • sono ripetute e indirizzate a soggetti chiave, producendo un effetto distorsivo e intimidatorio sul mercato, dimostrato dalla cancellazione documentata di eventi e programmi.

Il Tribunale è chiaro: non basta che l’informazione sia “tecnicamente” vera (come nel caso della registrazione estera). Se manca il contesto – procedimenti in corso, limiti territoriali, eccezioni – il messaggio complessivo diventa ingannevole e lesivo. È proprio questo impatto concreto ad aver giustificato, secondo il giudice milanese, la concessione dell’inibitoria.

Verità, contesto e misura: i limiti giuridici della diffida

Come già emerso, anche una notizia formalmente vera può assumere carattere denigratorio se viene veicolata in modo tendenzioso, parziale o fuorviante. È proprio su questo punto che il Tribunale di Milano ha fondato la propria rivalutazione, richiamando il principio della concorrenza sleale per denigrazione, previsto all’art. 2598, n. 2 del Codice Civile.

La norma stabilisce che costituisce atto di concorrenza sleale la diffusione – anche selettiva – di notizie o giudizi che, pur veri, risultino formulati in modo scorretto, incompleto o distorto, tali da minare la reputazione del concorrente e turbare i suoi rapporti commerciali. La giurisprudenza è chiara: una comunicazione, per quanto scomoda o sfavorevole, non è illecita se è rigorosamente vera, espressa in modo completo, verificabile e con toni misurati.

La decisione milanese traduce questi principi in una guida concreta, utile soprattutto in contesti ad alta sensibilità giuridica come quello della proprietà intellettuale. Cinque i criteri operativi che emergono:

  • Verità sostanziale: non basta l’accuratezza del dato, serve anche la contestualizzazione (es. se il marchio è contestato, oggetto di annullamento, soggetto a limiti territoriali).
  • Completezza: evitare mezze verità; chiarire l’ambito di validità del diritto vantato e i suoi contro-limiti, come la notorietà di un marchio nazionale.
  • Correttezza e continenza: mantenere un tono equilibrato, senza minacce sproporzionate o intimidazioni implicite.
  • Pertinenza dei destinatari: rivolgersi in primo luogo al presunto contraffattore; coinvolgere partner e stakeholder solo se strettamente necessario, e sempre con motivazione puntuale.
  • Proporzionalità: il contenuto della diffida deve essere coerente con l’obiettivo difensivo e non trasformarsi in uno strumento di pressione sul mercato.

In sintesi, la diffida è un mezzo di tutela, non un megafono per influenzare indebitamente i rapporti commerciali. Quando una comunicazione – pur partendo da un’informazione vera – suggerisce più di quanto il diritto consenta, e mira a bloccare o intimorire i partner di un concorrente, il confine della legittimità è superato. È proprio questo il cuore della pronuncia: impedire che informazioni parziali sostituiscano il confronto competitivo con strategie di interdizione mascherate da tutela legale.

© Canella Camaiora S.t.A. S.r.l. - Tutti i diritti riservati.
Data di pubblicazione: 13 Novembre 2025

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Pablo Lo Monaco Dominguez

Laureato presso l’Università di Milano-Bicocca, praticante Avvocato appassionato di litigation e risarcimento del danno.

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