Abstract
C’è chi la considera la borsa più desiderata al mondo e chi un simbolo di un sistema del lusso tanto affascinante quanto ineffabile: la Birkin di Hermès. Per ottenerla non basta la disponibilità economica, serve far parte di un ristretto “circolo” di clienti selezionati. È proprio questo meccanismo, a metà tra strategia commerciale e artificiosa costruzione del mito, ad aver spinto alcuni acquirenti americani a citare in giudizio il marchio francese.
Il 17 settembre 2025, il Tribunale distrettuale della California si è pronunciato nel caso Tina Cavalleri et al. v. Hermès International et al., accogliendo l’eccezione preliminare di inammissibilità dell’azione. La vicenda, pur restando confinata all’ordinamento statunitense, richiama l’attenzione su un tema sempre più attuale anche in Italia: l’evoluzione degli strumenti di tutela collettiva, come la class action (Second order re dismissal – Case 3:24-cv-01707-JD).
La Birkin: il lusso dell’attesa (e della selezione)
Poche borse hanno saputo trasformarsi in mito come la Birkin di Hermès: più che un accessorio, un simbolo di appartenenza e quasi irraggiungibile desiderio. Ogni pezzo è realizzato a mano, in serie limitate, da artigiani specializzati che impiegano ore – a volte giorni – per completarne uno.
Ma il vero segreto della Birkin non sta nel cuoio o nelle cuciture, bensì nel modo in cui si accede all’acquisto. Chi entra in una boutique Hermès non la troverà esposta, e non potrà ordinarla online. Il marchio adotta infatti un sistema di vendita selettivo: solo i clienti già fidelizzati – cioè chi ha acquistato in precedenza altri articoli Hermès, dalle sciarpe alle calzature – possono venire invitati o autorizzati a comprare una Birkin.
In pratica, non basta potersela permettere: bisogna essere scelti. È questo meccanismo, sospeso tra marketing e privilegio, che ha dato origine alla causa intentata contro la maison francese.
La class action americana: quando i “piccoli” sfidano i “grandi”
Nessun altro ordinamento ha fatto della class action un meccanismo di giustizia collettiva tanto centrale quanto quello statunitense.
Questo strumento consente a un gruppo di persone – i cosiddetti class members – di agire insieme contro un soggetto, di solito un’impresa, quando ciascuno dei componenti il gruppo ha subito un danno analogo o derivante dallo stesso comportamento illecito.
L’azione è promossa da uno o più class representatives, che rappresentano l’intera classe davanti al giudice. Se quest’ultimo “certifica” la classe, la causa prosegue in forma collettiva e la decisione finale vincolerà tutti i membri, salvo chi abbia scelto esplicitamente di “uscire” (opt-out).
La class action serve a rendere più efficiente la tutela di diritti diffusi o collettivi, che appartengano a consumatori, investitori, lavoratori o cittadini esposti a pratiche scorrette. Spesso il danno individuale è modesto, ma la lesione complessiva è significativa; in altri casi, come nelle cause antitrust o ambientali, l’impatto economico può essere enorme e incidere su interi settori.
Regolata dalla Rule 23 delle Federal Rules of Civil Procedure, la class action è ormai parte integrante della cultura giuridica americana: uno strumento di giustizia, ma anche di pressione sociale e reputazionale.
Questa tipologia di azione si è imposta nell’immaginario collettivo grazie a film come Erin Brockovich (2000), che racconta di una causa ambientale miliardaria contro una compagnia energetica, o The Rainmaker (1997), in cui un giovane avvocato affronta una grande compagnia assicurativa.
Sul grande schermo, queste storie finiscono quasi sempre con la vittoria dei “piccoli”. Nella realtà del caso Cavalleri, et al, v. Hermès, invece, la storia – almeno per ora – si è chiusa prima ancora che partissero i titoli di testa…
Hermès vince (per ora): il giudice ferma la causa prima del merito
Nell’incipit della sua decisione, il giudice americano ricorda che non tutti i casi di tying costituiscono un illecito “per sé”, ossia vietato automaticamente senza bisogno di ulteriori prove.
Nel linguaggio antitrust, si parla di “tying” – o vendita vincolata – quando un’impresa condiziona la vendita di un prodotto (il cosiddetto “prodotto principale” o “tying product”) all’acquisto di un altro bene distinto (il “prodotto legato” o “tied product”).
L’idea è che chi detiene potere di mercato sul primo prodotto possa “trasferire” detto potere sul secondo, restringendo così la concorrenza.
Nella maggior parte dei casi – e a maggior ragione nel settore del lusso, dove la linea di demarcazione tra strategia commerciale legittima ed esclusione sleale dei concorrenti è sottile – le pratiche di tying vengono valutate secondo la c.d. “rule of reason”.
Questo standard impone di verificare concretamente se l’impresa detenga potere di mercato e se la condotta abbia prodotto effetti restrittivi sulla concorrenza.
Il giudice, nella sentenza commentata, prende una posizione chiara: “I ricorrenti sembrano basarsi sull’idea che tutti i casi di tying costituiscano automaticamente una violazione di per sé dello Sherman Act. Ma la Corte Suprema ha messo in guardia dal condannare automaticamente queste pratiche. […] L’esperienza con l’industria delle borse di lusso non è tale da rendere ovvia una presunzione di responsabilità di per sé.”.
Ciononostante, per completezza argomentativa e di analisi, il giudice ha deciso di esaminare il ricorso ipotizzando che la dottrina della rule of reason fosse applicabile, ma finendo comunque per concludere che le domande dei ricorrenti non potessero proprio integrare gli estremi di una fondata azione antitrust.
Qualsiasi azione antitrust, infatti, non può prescindere dall’analisi di tre elementi fondamentali: la definizione del mercato rilevante, il potere di mercato esercitato e il danno alla concorrenza.
Nel caso in oggetto in particolare, secondo il giudice, perché si potesse ravvisare una pratica anticoncorrenziale di tying, i ricorrenti avrebbero dovuto dimostrare: (1) che Hermès avesse vincolato la vendita di due diversi prodotti, (2) che la società convenuta possedesse abbastanza potere economico nel mercato di riferimento da costringere i consumatori ad acquistare il prodotto secondario e (3) che la pratica di tying impattasse in misura significativa sui volumi economici generati dal mercato del prodotto secondario.
Poiché i ricorrenti non hanno fornito dati o fatti concreti su nessuno di questi aspetti, il giudice non è potuto entrare nel merito della controversia e ha accolto l’eccezione preliminare di inammissibilità (motion to dismiss).
La class action parla anche italiano: dal modello americano alle aule di giustizia nazionali
Un’azione come quella promossa contro Hermès negli Stati Uniti – una class action antitrust – in Italia fino a pochi anni fa sarebbe stata impensabile. L’istituto, introdotto nel 2007 e riformato più volte, è rimasto per lungo tempo relegato al ruolo di esperimento marginale, ostacolato da regole procedurali complesse e da una scarsa cultura del contenzioso collettivo.
Oggi però il quadro sembra essere cambiato in modo significativo. Le riforme del 2019 e del 2023 hanno rivoluzionato il sistema, introducendo due strumenti distinti:
- l’azione di classe “generale” (artt. 840-bis e ss. c.p.c.), esperibile da un’organizzazione o un’associazione senza scopo di lucro i cui obiettivi statutari comprendano la tutela di determinati diritti individuali omogenei, ma esperibile anche ciascun componente della classe;
- e l’azione rappresentativa dei consumatori (artt. 140-ter e ss. Codice del Consumo, D.lgs. 28/2023), riservata ad associazioni o enti qualificati iscritti in appositi elenchi ministeriali, per la tutela degli interessi collettivi dei consumatori in materie specifiche.
Entrambe consentono di chiedere provvedimenti risarcitori, restitutori o inibitori, con procedure oggi molto più snelle: adesione online, pubblicità telematica dei procedimenti, agevolazioni probatorie e incentivi economici (come il compenso premiale per l’avvocato della classe e la riduzione del contributo unificato).
Il risultato si è visto in tempi rapidi. Secondo i dati pubblici disponibili, al 31 dicembre 2024 in Italia erano state introdotte 67 azioni di classe, con una media di tre nuove cause ogni mese: un numero ancora ben lontano da quelli – “tragici” – del contenzioso ordinario, ma comunque impensabile fino a pochi anni fa, veicolato principalmente dai settori bancario, finanziario e dei servizi digitali (per approfondire, vi consigliamo i seguenti articoli della Cassa Nazionale di Previdenza e Assistenza Forense: “Le nuove azioni di classe e le nuove azioni rappresentative” e “La sempre più estesa applicazione e diffusione in italia delle nuove azioni di classe”).
Nel 2025, la crescita sembra proseguire: l’azione di classe non è ancora una realtà diffusa, ma sta senz’altro uscendo dalla sua fase sperimentale, segno che l’idea di una tutela collettiva dei diritti sta guadagnando terreno anche nel nostro sistema.
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Data di pubblicazione: 1 Dicembre 2025
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Celeste Martinez Di Leo
Praticante avvocato, laureata in Giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Pavia e in “Abogacía” presso l’Universidad de Belgrano (Argentina) a pieni voti.
