Competitività europea: Draghi chiede di rompere i tabù

Tempo di lettura: 7 minuti

Abstract

A un anno dal suo rapporto sulla competitività europea, Mario Draghi torna a Bruxelles e lancia un nuovo allarme: l’Europa è ancora troppo lenta, frammentata e dipendente da altri. Se vuole restare rilevante nel mondo, l’Unione deve smettere di fare solo l’arbitro e iniziare a costruire: innovazione, infrastrutture, filiere. Questo articolo analizza i passaggi chiave del discorso di Draghi, tra auto elettrica, intelligenza artificiale e politica industriale, mettendo in luce cosa manca — e cosa serve — per un cambio di passo reale.

Il nostro modello di crescita sta svanendo

Esattamente dodici mesi fa, Mario Draghi presentava il suo Rapporto sulla competitività dell’Unione Europea, individuando tre priorità strategiche: colmare il divario tecnologico, avviare una decarbonizzazione compatibile con la crescita e rafforzare la sicurezza economica. Oggi, davanti alla Commissione e agli Stati membri riuniti a Bruxelles, l’ex premier italiano e presidente della BCE è tornato a parlare. Ma non per rivendicare i progressi fatti: il tono è stato allarmato, quasi da ultimatum.

Il nostro modello di crescita sta svanendo”, ha dichiarato Draghi con una franchezza rara nel linguaggio delle istituzioni europee. A suo giudizio, l’Europa è oggi più fragile di un anno fa: vulnerabilità economiche in aumento, dipendenze strategiche irrisolte e un debito pubblico destinato a crescere, con uno scenario che prevede il raggiungimento del 93% del PIL in dieci anni. Ma più ancora del debito, il problema sembra essere la perdita di tempo, che nella competizione globale si traduce in perdita di potere.

Draghi ha denunciato la lentezza endemica del processo decisionale europeo, troppo spesso giustificata con il rispetto delle procedure e dello Stato di diritto. In realtà, secondo l’economista, questa lentezza è diventata una forma di autocompiacimento, un alibi per non affrontare scelte difficili. “I cittadini sono pronti ad agire”, ha detto, “ma temono che i governi non abbiano compreso la gravità del momento”.

In questo senso, la diagnosi è chiara: continuare come al solito significa rassegnarsi a rimanere indietro. Non bastano più agende ambiziose e buone intenzioni. Serve — parole di Draghi — “una nuova velocità, una nuova intensità e una nuova portata”. E questo vale soprattutto per i settori innovativi e l’evoluzione digitale, temi che già un anno fa avevamo affrontato nel nostro approfondimento su Internet e potere in UE (Internet e potere in UE: dal piano Draghi contro le Big Tech al decreto italiano anti-pirateria – Canella Camaiora). Lì avevamo messo in luce come la battaglia per la sovranità passasse anche dal controllo dei dati, delle piattaforme digitali e delle strutture digitali essenziali. Oggi, Draghi rilancia: senza risultati concreti in tempi brevi, l’Europa rischia di restare irrilevante.

Sovranità digitale ed economica: due facce della stessa medaglia

Nel suo nuovo intervento, Draghi ha messo in evidenza un punto chiave che chiama in causa direttamente le imprese europee, soprattutto le PMI e i settori manifatturieri strategici: la mancanza di sovranità economica in Europa è in larga parte il riflesso di una mancata sovranità digitale e tecnologica.

L’ex presidente della BCE non ha usato mezzi termini nel descrivere la posizione di debolezza dell’Unione: sulla scena globale, l’UE appare spesso costretta a firmare accordi commerciali dettati da altri, come nel recente caso dei dazi con gli Stati Uniti, imposti “alle condizioni americane” anche a causa della dipendenza europea nella difesa. Ma il cuore del problema non è (solo) geopolitico: l’Europa non produce abbastanza tecnologia strategica propria, non controlla le principali piattaforme digitali e resta indietro nell’intelligenza artificiale.

L’analisi è spietata: nel 2024, gli Stati Uniti hanno prodotto 40 grandi modelli di IA generativa, la Cina 15, l’Europa solo 3. In un settore in cui conta più la proprietà intellettuale che l’hardware, l’Europa sta scommettendo su iniziative promettenti — come le giga-fabbriche di IA o gli investimenti di ASML in Mistral — ma parte da troppo lontano. Tra le PMI, l’adozione delle tecnologie IA oscilla ancora tra il 13% e il 21%, un dato che testimonia una cultura digitale non ancora diffusa né sistemica.

Eppure, come sottolineavamo già un anno fa nel nostro articolo sul piano Draghi, la regolazione da sola non basta. Il Digital Services Act e il regolamento sull’IA sono strumenti fondamentali per contenere gli abusi delle Big Tech, ma non possono sostituire una politica industriale e di innovazione capace di generare valore interno. È qui che si misura la vera sovranità dell’Europa: non nella capacità di disciplinare le piattaforme americane, ma in quella di costruire un sistema autonomo, efficiente e competitivo.

In questo contesto, le imprese europee — e italiane in particolare — si trovano davanti a un bivio. Continuare a subire la tecnologia “importata” oppure partecipare alla sua costruzione, magari approfittando delle opportunità offerte da fondi pubblici, transizione digitale e partnership strategiche. È una scelta che chiama in causa anche il legislatore e le istituzioni nazionali, che devono smettere di agire “per compartimenti stagni” e coordinarsi su scala europea.

Il tempo della frammentazione è finito

Uno dei passaggi più duri — e forse più lucidi — del discorso di Mario Draghi riguarda la struttura stessa dell’Unione Europea. Una struttura che, secondo l’ex premier, rischia di diventare una zavorra più che un vantaggio competitivo, se non viene riformata nel modo in cui prende decisioni e agisce. “Troppo spesso si cercano scuse per la lentezza dell’UE”, ha detto, “come se l’inefficienza fosse una virtù o una forma di rispetto delle regole”.

Il nodo è la frammentazione: troppe istituzioni, troppi livelli decisionali, troppe agende in competizione tra loro. In un mondo in cui Stati Uniti e Cina riescono a mobilitare capitali pubblici e privati con una velocità impressionante — e con una direzione chiara — l’Europa appare bloccata da un modello consensuale che funziona in tempi di stabilità, ma che oggi mostra tutti i suoi limiti. Draghi non lo dice apertamente, ma il messaggio è chiaro: la governance europea così com’è non è all’altezza delle sfide storiche che stiamo affrontando.

Questo vale anche e soprattutto per l’progresso industriale e per la capacità produttiva. I programmi europei esistono, i fondi ci sono, ma le risorse finiscono per frammentarsi in mille rivoli, spesso con criteri più politici che strategici. Le PMI, per esempio, fanno sempre più fatica a orientarsi tra bandi, requisiti, tempi incerti e rendicontazioni complesse. L’accesso all’innovazione resta limitato a pochi attori ben strutturati, mentre la gran parte delle imprese resta alla finestra, aspettando di capire cosa accadrà.

In questo scenario, la mancanza di rapidità si traduce in perdita di opportunità. Draghi propone una svolta netta: non più piani generici e scadenze indefinite, ma obiettivi misurabili, tempi brevi e risultati concreti. Il modello da seguire, dice, è quello dei grandi successi dell’UE: il progetti fondanti come il Mercato Unico e la moneta comune, che sono nati da una combinazione di ambizione politica, tappe definite e responsabilità condivisa.

Il messaggio è rivolto a tutti, ma in particolare ai decisori politici: o si cambia marcia, o si perde la gara. E le conseguenze non sarebbero solo economiche, ma anche sociali, culturali e democratiche. Un’Europa inefficace non può durare a lungo.

Iscriviti alla newsletter dello studio legale Canella Camaiora.

Resta aggiornato su tutte le novità legali, webinar esclusivi, guide pratiche e molto altro.

Non basta regolamentare: bisogna costruire

Il cuore dell’appello di Mario Draghi è tutto in una frase: “Per la sopravvivenza dell’Europa dobbiamo fare ciò che non è mai stato fatto prima.” L’Unione, secondo l’ex premier, non può più limitarsi a regolamentare — un ambito in cui eccelle — ma è chiamata a diventare capace di costruire, cioè di generare infrastrutture, tecnologie, filiere e risultati economici su scala continentale.

Non si tratta più di aggiornare le normative o perfezionare i meccanismi di controllo. Si tratta, piuttosto, di un cambio di mentalità radicale: Draghi propone un’Europa che agisce come attore industriale e tecnologico, capace di concentrare risorse, attrarre investimenti, produrre risultati in mesi e non anni. L’esempio americano, con il suo Inflation Reduction Act, e quello cinese, con la sua pianificazione industriale integrata, mostrano che una visione forte può generare vantaggi competitivi concreti e duraturi.

In questo nuovo contesto, le PMI europee non sono chiamate solo a “stare al passo”, ma a diventare protagoniste. Serve però un ambiente che le metta in condizione di farlo: accesso facilitato a capitali pubblici e privati, semplificazione normativa, supporto alla formazione e alla digitalizzazione, e soprattutto una politica europea che premi la produzione interna, l’innovazione locale e la proprietà intellettuale sviluppata sul suolo europeo.

Come già osservato nell’articolo dell’anno scorso, l’Europa ha cominciato a muoversi nella giusta direzione con regolamenti importanti (DSA, DMA, AI Act), ma manca ancora la parte costruttiva della strategia: data center, chip, modelli linguistici, software open source, filiere europee. La regolazione è difesa. L’innovazione è attacco. E se l’Europa vuole tornare competitiva, è chiamata a giocare anche in attacco.

Draghi non parla solo di economia. Il suo è un discorso politico e culturale: serve una mobilitazione collettiva, come quella che ha portato alla creazione del Mercato Unico e dell’Euro. Non bastano buone intenzioni, servono scadenze vincolanti, traguardi misurabili e responsabilità politiche chiare. Solo così, conclude, l’Unione potrà tornare a produrre risultati e a meritare la fiducia dei suoi cittadini e delle sue imprese.

© Canella Camaiora S.t.A. S.r.l. - Tutti i diritti riservati.
Data di pubblicazione: 18 Settembre 2025

È consentita la riproduzione testuale dell’articolo, anche a fini commerciali, nei limiti del 15% della sua totalità a condizione che venga indicata chiaramente la fonte. In caso di riproduzione online, deve essere inserito un link all’articolo originale. La riproduzione o la parafrasi non autorizzata e senza indicazione della fonte sarà perseguita legalmente.

Avv. Arlo Cannela

Arlo Canella

Managing & founding partner, avvocato del Foro di Milano e cassazionista, responsabile formazione e ricerca indipendente dello Studio CC®.

Leggi la bio
error: Content is protected !!