Comunicare la salute online: regole, limiti e responsabilità per i medici sui social

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Abstract

La comunicazione sanitaria sui social è un territorio sempre più esposto a rischi deontologici e giuridici. Medici e operatori sanitari, quando pubblicano contenuti online, esercitano un atto professionale che incide sulla fiducia pubblica nella medicina. L’articolo analizza i limiti tra informazione e pubblicità sanitaria, l’autopromozione del professionista e le norme che regolano la trasparenza digitale. Dai dati AIFA e IAP ai procedimenti AGCM e disciplinari, emerge un quadro chiaro: la libertà di parola non esonera dal dovere di misura. In sanità, anche sui social, la credibilità si costruisce con sobrietà, rigore e verità scientifica.

La piazza digitale della salute

Negli ultimi anni, i social network sono diventati la nuova piazza della salute. Milioni di utenti cercano quotidianamente online risposte su diagnosi, sintomi o terapie, e la voce di chi possiede una competenza scientifica — medici, farmacisti, operatori sanitari — è diventata una delle più ascoltate.

Ma ogni messaggio che riguarda la salute pubblicato online, anche in buona fede, può influenzare comportamenti, fiducia e scelte terapeutiche, trasformando un semplice post in un atto di responsabilità professionale, soprattutto per medici e operatori sanitari.

Secondo il Monitoraggio 2024 “Trasparenza e Influencer Marketing” realizzato dallo IAP in collaborazione con ALMED – Università Cattolica di Milano, su oltre 300 creator italiani analizzati solo il 4% dei contenuti promozionali risulta totalmente non trasparente, ma circa un quinto (20%) rientra in una “zona grigia”, dove la natura pubblicitaria non è comunicata in modo pienamente conforme al Regolamento Digital Chart.

Se già per gli influencer “ordinari” la trasparenza è una sfida, per i professionisti della salute il rischio è più alto: ogni ambiguità può apparire come una forma di promozione, o di autopromozione, minando la fiducia pubblica nella competenza e nell’indipendenza della professione medica.

Se è vero che La Costituzione italiana, all’articolo 21, tutela la libertà di manifestare il proprio pensiero, quando a parlare è un professionista sanitario, questa libertà incontra limiti precisi:

  • il Codice di Deontologia Medica (artt. 54–56) impone di mantenere sempre “un comportamento ispirato a dignità, decoro e verità scientifica”;
  • il D.Lgs. 219/2006, noto come Codice del Farmaco, distingue l’informazione scientifica — rivolta a operatori — dalla pubblicità sanitaria, che richiede autorizzazione ministeriale;
  • le Linee guida FNOMCeO sui social media (2023) raccomandano una comunicazione “corretta, responsabile e trasparente, esente da toni sensazionalistici o di accreditamento improprio”.

Un medico o un operatore sanitario può quindi esprimere opinioni scientifiche, condividere dati, rispondere a dubbi di salute generale. Ma non può offrire consulenze personalizzate, né usare i social per suggerire cure o per promuovere prodotti, tecniche o servizi.

La libertà di parola non viene negata: viene bilanciata dal dovere di prudenza e veridicità.

Chi esercita una professione regolamentata non parla mai solo per sé — parla da figura di fiducia pubblica, e per questo le sue parole hanno un peso diverso.

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Auto-promozione (dei medici) e immagine professionale

Tra le insidie della comunicazione sanitaria sui social, una delle più diffuse è l’autopromozione. Non si tratta solo di pubblicità esplicita o di sponsorizzazioni commerciali, ma di quella forma più sottile di visibilità personale che trasforma il professionista in un marchio di sé stesso. È la logica dell’“autorità visiva”: più follower, più credibilità; più interazioni, più influenza. Ma nel campo della salute, questo meccanismo è rischioso. La deontologia medica non vieta la presenza online del medico, ma ne regola rigorosamente finalità e tono.

L’articolo 55 del Codice di Deontologia Medica vieta qualsiasi forma di pubblicità ingannevole, elogiativa o comparativa, e impone che la comunicazione del medico sia sempre “improntata a correttezza, decoro e rispetto della verità scientifica”. La FNOMCeO, nelle Linee guida sui social media del 2023, ha chiarito che l’attività online può avere finalità informativa, educativa o divulgativa, ma non può mai degenerare in promozione personale o commerciale.

Questo significa che il professionista può parlare del proprio lavoro, dei progressi della medicina o di campagne di prevenzione, ma deve evitare ogni forma di linguaggio che esalti sé stesso, i propri risultati o la propria struttura professionale come se fossero un prodotto.

L’autopromozione è pericolosa perché altera la percezione del rapporto medico-paziente. Quando un professionista comunica con tono autocelebrativo, esibendo risultati clinici o mostrando immagini “prima e dopo”, si sposta dal terreno dell’informazione a quello della persuasione. In rete, dove le immagini contano più dei contenuti, il rischio è che l’esperienza del paziente venga rappresentata come una promessa di risultato, e non come un percorso terapeutico complesso e individuale. Questo tipo di comunicazione non solo è vietato, ma mina la fiducia nel sistema sanitario e riduce la medicina a marketing.

Il divieto non significa silenzio. Un medico può legittimamente costruire la propria reputazione digitale, ma deve farlo attraverso la qualità dei contenuti, non attraverso la spettacolarizzazione di sé.

È lecito, ad esempio, pubblicare un approfondimento sulle linee guida di una patologia o rispondere a dubbi diffusi, ma non è accettabile usare i social per comparare le proprie prestazioni con quelle di altri professionisti, per mostrare i propri riconoscimenti o per usare hashtag autoreferenziali come strumento di autopromozione. Le piattaforme digitali sono strumenti potenti, ma amplificano anche le distorsioni: l’ostentazione di competenza può trasformarsi in competizione, e la divulgazione in captazione di consenso.

Il principio guida, come ricordano le Linee guida FNOMCeO, è la proporzionalità: più ampia è la visibilità del professionista, maggiore deve essere la sua sobrietà comunicativa. Chi esercita una professione sanitaria non può dimenticare che ogni parola, ogni immagine, ogni contenuto pubblicato è un riflesso della fiducia che la collettività ripone nella medicina. L’immagine del medico non è uno strumento di marketing, ma un simbolo di credibilità pubblica: va curata, non sfruttata.

Pubblicità sanitaria e confini digitali

Negli ultimi anni, la linea che separa la comunicazione sanitaria dalla pubblicità medica è diventata più sottile e pericolosa. Il professionista che comunica online non promuove solo sé stesso, ma contribuisce a formare un immaginario collettivo su salute, cura e benessere.

Tuttavia, quando il linguaggio si fa troppo “autentico” e quindi persuasivo, la comunicazione può condizionare il pubblico, facendo entrare in gioco norme precise (e autorità pronte a intervenire).

È importante chiarirlo: la pubblicità sanitaria riguarda tutto ciò che promuove un’attività o una prestazione sanitaria, anche se resa da un singolo professionista. È regolata dal Codice del Consumo (D.Lgs. 206/2005) e dai codici deontologici, che vietano messaggi ingannevoli, comparativi o suggestivi.

La pubblicità dei medicinali, invece, è disciplinata dal D.Lgs. 219/2006: richiede autorizzazioni ministeriali e prevede controlli formali da parte dell’AIFA. Sono due piani diversi, ma comunicanti: quando un medico o una struttura cita, mostra o suggerisce l’uso di un farmaco, entra automaticamente nel perimetro del Codice del Farmaco.

Proprio per questo, i dati del Rapporto AIFA 2024 sono un campanello d’allarme. Nel solo anno 2024 sono state depositate 13.438 pratiche pubblicitarie di medicinali; di queste, quasi il 29% è risultata irregolare o non conforme alle disposizioni del D.Lgs. 219/2006.

L’AIFA ha ricordato inoltre che la “pubblicità dei medicinali rivolta agli operatori sanitari non può essere diffusa tramite social network”, poiché piattaforme come Facebook, Instagram o LinkedIn non garantiscono l’esclusione del pubblico.

Questa indicazione non è un divieto astratto: è il riconoscimento che i social, per la loro natura ibrida, sono canali intrinsecamente promiscui. E quindi incompatibili con la riservatezza che il legislatore pretende quando si parla di farmaci o terapie.

Ma soprattutto, rappresentano un terreno di rischio per il professionista che comunica in modo troppo disinvolto: anche un post divulgativo, se contiene riferimenti a prodotti o a tecniche riconducibili a specifici marchi, può essere interpretato come messaggio pubblicitario non autorizzato.

I casi documentati lo dimostrano: l’AGCM è intervenuta più volte per sanzionare comunicazioni sanitarie ritenute ingannevoli in cui aziende avevano diffuso messaggi di efficacia terapeutica non dimostrata. I provvedimenti, spesso confermati dal Consiglio di Stato, hanno ribadito che anche la sola evocazione di un determinato effetto può costituire pubblicità sanitaria ingannevole (“fino a 5× volte di più rispetto alla sola dieta”, Consiglio di Stato, Sezione Terza, Sentenza n. 8145 del 18 dicembre 2020 – RG n. 8578/2020). In altre occasioni è stato l’Istituto di Autodisciplina Pubblicitaria (IAP) a censurare campagne ambigue o video promozionali presentati come “testimonianze scientifiche” (si veda “favorisce l’equilibrio del peso”, “ti aiuta a perdere peso” in Istituto dell’Autodisciplina Pubblicitaria (IAP), Comitato di Controllo, Ingiunzione n. 19/2024 del 5 luglio 2024).

In astratto, basterebbe una story o un reel per innescare un procedimento disciplinare o amministrativo: una frase ambigua, un ringraziamento a un marchio, la riproduzione di un logo possono bastare per configurare una violazione.

Il professionista che comunica online non deve quindi chiedersi solo “cosa voglio dire?”, ma anche “come potrebbe essere percepito ciò che dico?”.

Insomma, la vigilanza c’è già. Non serve una nuova legge per punire la disinformazione o la pubblicità occulta; bastano le norme esistenti, ove applicate in modo stringente.

Buone pratiche e vigilanza sugli “health influencer”

Gli Ordini professionali sono in prima linea: se un messaggio online viola il decoro, la dignità o la verità scientifica, possono avviare il procedimento disciplinare fino alla sospensione e, nei casi più gravi, alla radiazione, secondo il quadro deontologico (artt. 54–56 Codice FNOMCeO) e la disciplina ordinistica (es. medico odontoiatra radiato).

Ma non finisce qui. Sul piano amministrativo, l’AGCM può colpire le pratiche commerciali scorrette e la pubblicità ingannevole (D.Lgs. 206/2005) con sanzioni che arrivano fino a 10 milioni di euro.

Sul piano penale, nelle ipotesi estreme, la diffusione di notizie false o allarmistiche (art. 656 c.p.) e condotte assimilabili alla frode nell’esercizio del commercio (art. 515 c.p.) possono essere contestate quando la comunicazione travisa deliberatamente effetti, sicurezza o indicazioni d’uso.

Come si previene il rischio? Con buone pratiche semplici e vincolanti.

Primo: parlare di salute, non di sé.

Secondo: separare la divulgazione dalla promozione. Niente tag/menzioni di brand sanitari, niente loghi o prodotti in campo: anche un riferimento indiretto può essere interpretato come pubblicità sanitaria o dei medicinali (e, per i farmaci, richiederebbe i relativi titoli autorizzativi).

Terzo: usare fonti verificabili e aggiornate; citare linee guida, documenti istituzionali e dati solidi; non trasformare ipotesi o singoli casi in “verità” comunicative.

Quarto: mantenere un linguaggio misurato e non prescrittivo; nessuna consulenza personalizzata in DM o commenti, nessun “consiglio terapeutico” senza il contesto clinico.

Quinto: curare la trasparenza formale: se il contenuto è sponsorizzato (fuori dall’àmbito sanitario), usare le diciture chiare previste dalla Digital Chart IAP; se è materiale regolato (p.es. PubMOS), rispettare i canali e gli adempimenti previsti (depositi, aree riservate, esclusione del pubblico).

La conclusione è operativa: chi comunica salute online deve ragionare per scenari di rischio. E sul web, dove ogni parola resta a lungo, la prudenza professionale è la miglior forma di tutela, tanto per i cittadini quanto per chi li cura.

© Canella Camaiora S.t.A. S.r.l. - Tutti i diritti riservati.
Data di pubblicazione: 13 Ottobre 2025

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Avv. Arlo Cannela

Arlo Canella

Managing & founding partner, avvocato del Foro di Milano e cassazionista, responsabile formazione e ricerca indipendente dello Studio CC®.

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