È possibile commettere un reato usando il proprio marchio? La Cassazione risponde

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Abstract

Molti imprenditori associano il marchio unicamente a una questione di marketing e identità aziendale. In realtà, il marchio è anche un istituto giuridico che comunica al pubblico un insieme di informazioni sulla provenienza, la qualità e l’affidabilità di un prodotto o servizio.

Proprio per questo, l’ordinamento tutela il consumatore e il mercato contro gli usi ingannevoli del marchio, anche sul piano penale.

Non è sempre necessario che il marchio sia “falso” o “contraffatto: anche l’uso formalmente lecito, ma sostanzialmente ingannevole può integrare un reato.

L’uso ingannevole di un marchio “lecito”

Nel mercato internazionale, i marchi che evocano luoghi e qualità territoriali esercitano un forte richiamo commerciale. Espressioni come “Italian style”, “Swiss quality” o “French taste” vengono spesso usate per valorizzare un prodotto, ma non sempre chi le utilizza è consapevole delle implicazioni legali che ne derivano.

La Cassazione, con la sentenza n. 28501/2025, ha ricordato che anche l’uso suggestivo di un riferimento geografico può integrare un reato quando il segno induce il consumatore a credere che il prodotto provenga da un’area diversa da quella reale.

In altre parole, il confine tra comunicazione evocativa e indicazione falsa può essere sottile: ciò che nasce come scelta di marketing può trasformarsi in responsabilità penale se altera la percezione dell’origine del bene.

Pertanto, potrebbe non essere sufficiente indicare il distributore o la provenienza sul retro della confezione se l’immagine, il nome o la grafica del marchio trasmettono al pubblico un’informazione diversa.

Questa pronuncia interessa non solo i produttori, ma anche importatori, distributori e agenzie di branding, perché afferma un principio che non può essere ignorato. Il marchio non può essere usato per suggerire un’origine che non c’è. E, in taluni casi, tale uso può assumere rilevanza penale ai sensi dell’art. 517 del codice penale.

Quando l’uso del marchio diventa penalmente rilevante?

La disciplina penale tutela non solo i marchi in quanto segni distintivi, ma anche la verità delle informazioni trasmesse al mercato.

L’art. 517 c.p. è la norma cardine, punendo chi “pone in vendita o mette altrimenti in circolazione opere dell’ingegno o prodotti industriali, con nomi, marchi o segni distintivi nazionali o esteri, atti a indurre in inganno il compratore sull’origine, provenienza o qualità dell’opera o del prodotto”.

Non si tratta di contraffazione – che riguarda la riproduzione o l’imitazione di marchi registrati (art. 473 c.p.) – bensì di un reato che colpisce ogni uso fuorviante del segno, anche quando formalmente legittimo. È sufficiente che il messaggio complessivo induca il consumatore a ritenere, ad esempio, che un prodotto provenga da un Paese, da una società o da una tradizione produttiva che in realtà non hanno nulla a che fare con quel prodotto.

La tutela del consumatore è, dunque, evidente anche in ambito penale.

Non si tratta però dell’unica previsione di legge posta dall’ordinamento a tutela non solo del consumatore, ma – più in senso lato – a protezione del corretto funzionamento del mercato. Accanto a questa norma infatti, anche il Codice della Proprietà Industriale (D.Lgs. 30/2005), all’art. 127, sanziona chi indica falsamente che un marchio è registrato – ad esempio apponendo il simbolo ® – quando non lo è realmente. In questo caso, la falsità non riguarda la provenienza geografica o la qualità del bene, ma lo status giuridico del marchio stesso.

L’indicazione di avvenuta registrazione trasmette al pubblico l’idea di una protezione legale e di una affidabilità in realtà inesistenti, alterando la libera concorrenza allo stesso modo di un’indicazione geografica mendace.

Entrambe le norme si fondano su un principio comune: la tutela della verità commerciale.

L’ordinamento penale interviene quando la comunicazione di impresa, attraverso il marchio o l’etichetta, supera la soglia della suggestione lecita e diventa inganno. In questo senso, la sentenza della Cassazione sul caso Swedish Pellet si inserisce in un quadro coerente: quello di un diritto penale che protegge la fiducia del consumatore e la trasparenza del mercato.

Cosa succede quando il marchio racconta un’origine che non esiste?

La vicenda trae origine dalla vendita in Italia di sacchi di pellet di legno recanti la bandiera della Svezia e la dicitura “Swedish Pellet, mentre il prodotto era in realtà fabbricato in Ucraina e distribuito da una società lettone.

Alla dogana la merce venne bloccata e l’importatrice – per sbloccarne la circolazione – aggiunse la dicitura “made extra UE, ritenendo di avere sanato l’irregolarità.

Il Tribunale di Salerno aveva inizialmente assolto l’imputata, accogliendo la tesi difensiva secondo cui “Swedish Pellet” fosse un marchio di fantasia appartenente a una società lettone e non un’indicazione di provenienza. Secondo i giudici di primo grado, mancava dunque l’elemento dell’inganno, trattandosi solo di un nome commerciale privo di valore descrittivo.

La Corte di Appello di Salerno, invece, aveva riformato integralmente la sentenza, ritenendo che la combinazione tra la bandiera svedese e la dicitura “Swedish Pellet” fosse idonea a indurre in errore il consumatore circa l’origine del prodotto. L’assenza di qualsiasi menzione dell’effettivo produttore ucraino e l’indicazione della sola società distributrice lettone avevano, secondo la Corte, amplificato l’effetto ingannevole, rendendo irrilevante la successiva aggiunta della dicitura “made extra UE”.

La Cassazione, con la sentenza n. 28501/2025, ha confermato la condanna, affermando che l’uso di questi segni configurava il reato di cui all’art. 517 c.p., poiché idoneo a trarre in inganno il consumatore sull’origine e sulla provenienza geografica del pellet.

Provenienza geografica o giuridica? Ecco cosa conta per la Cassazione

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 28501/2025 ha ribadito che la provenienza” del prodotto – ai fini della responsabilità penale – non è quella geografica (cioè il luogo materiale in cui il bene è stato fabbricato), ma quella giuridica, ossia l’appartenenza del prodotto all’imprenditore che ne ha assunto la responsabilità economica, tecnica e commerciale.

In altre parole ciò che conta non è dove fisicamente si trovi la fabbrica, ma chi sia il soggetto che ha ideato, controllato e garantito il prodotto.

Si tratta di un orientamento che nasce dall’evoluzione del mercato globale. Secondo la Corte, se la norma penale tutelasse la sola provenienza geografica, ogni imprenditore che delocalizza la produzione rischierebbe di essere incriminato per “indicazioni ingannevoli” anche se il prodotto è pienamente conforme agli standard a esso applicabili e porta legittimamente il suo marchio.

La “provenienza giuridica” è quindi l’elemento che identifica il prodotto con l’impresa responsabile del processo produttivo, indipendentemente dal luogo in cui esso è materialmente realizzato.

Come osserva la Corte, “L’espressione Swedish pellet, accompagnata all’immagine della bandiera svedese, in assenza di qualsiasi indicazione del produttore ucraino, è chiaramente evocativa non solo di una provenienza geografica, ma anche di una provenienza giuridica, perché il consumatore […] è indotto ingannevolmente a ritenere che il prodotto provenga dal legno delle foreste svedesi di un imprenditore operativo in Svezia […]”.

Infine, la successiva apposizione della dicitura made extra UE” non è sufficiente a rimuovere l’effetto ingannevole, se il marchio nel suo complesso continua a suggerire o evocare un’origine diversa da quella reale.

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Come comunicare senza commettere un reato

La decisione “Swedish Pellet” è un chiaro monito per produttori, distributori e agenzie di branding.

Chi immette sul mercato prodotti con marchi evocativi di luoghi, tradizioni o qualità territoriali deve verificare che tali riferimenti non risultino fallaci o ambigui rispetto alla reale provenienza.

Pertanto, è sempre consigliato:

  • verificare la coerenza tra marchio e origine effettiva del prodotto;
  • evitare indicazioni geografiche se non si dispone di un reale legame produttivo, commerciale o di licenza con l’area evocata;
  • curare l’etichettatura e il packaging affinché l’informazione sull’origine sia chiara e non contraddetta da elementi grafici di sorta;
  • formare il personale commerciale sull’uso corretto dei marchi e sulla comunicazione dei prodotti all’estero.

La sentenza in commento riafferma che il diritto penale interviene a tutela della lealtà del mercato, non solo del consumatore. Anche un marchio regolarmente registrato può essere penalmente rilevante se, nel suo impatto comunicativo, genera un inganno concreto o potenziale sulla provenienza del prodotto.

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Data di pubblicazione: 14 Ottobre 2025

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Margherita Manca

Avvocato presso lo Studio Legale Canella Camaiora, iscritta all’Ordine degli Avvocati di Milano, si occupa di diritto industriale.

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