Abstract
Il passaggio di un dipendente da una società all’altra è un fatto comune. Ma cosa succede se quel dipendente porta con sé competenze chiave, procedure interne o perfino file riservati? Quando si può parlare di concorrenza sleale? E fino a dove può spingersi la tutela della società che perde queste risorse? Il Tribunale di Milano, con un’ordinanza di dicembre 2024, ha risposto a queste domande in un caso che merita attenzione.
La migrazione di dipendenti (e di informazioni “riservate”)
Il Tribunale di Milano con un’ordinanza di dicembre 2024 ha affrontato un caso interessante. Il contesto: una gara pubblica indetta da ARERA (l’Autorità di regolazione per energia, reti e ambienti) per la gestione dei propri sistemi informatici, un appalto da oltre 22 milioni di euro. La società uscente, dopo anni di gestione e sviluppo di sistemi complessi, algoritmi e portali, perde l’appalto a favore di un nuovo operatore.
Durante la delicata fase di transizione, cinque dipendenti strategici passano dalla vecchia alla nuova società. Sebbene il passaggio sia formalmente legittimo, l’ex fornitore accusa la concorrente di averli stornati deliberatamente, con l’obiettivo di acquisire know-how sviluppato internamente (approfondisci Quando assumere i dipendenti altrui diventa un illecito? di A. Canella). A sostegno della tesi, l’azienda denuncia anche la copia di file aziendali poco prima delle dimissioni: documenti, configurazioni e appunti tecnici. Da qui, la richiesta urgente al Tribunale di un intervento giudiziario immediato.
La prova del furto di informazioni riservate
In casi di sospetta concorrenza sleale, una società può chiedere al Tribunale una misura d’urgenza molto incisiva: la descrizione giudiziale. Prevista dal Codice della Proprietà Industriale, consente di accedere – su autorizzazione del giudice – ai computer, server o documenti del concorrente per ottenere una copia forense e un’analisi tecnica dei dati.
Non si tratta di un sequestro, ma di una misura non invasiva ma altamente efficace, che permette di documentare rapidamente l’eventuale illecita sottrazione di informazioni. Tuttavia, per essere concessa, la descrizione deve rispettare requisiti rigorosi: il più importante è la titolarità effettiva di un diritto industriale. Non basta affermare genericamente che i dati sono “riservati”.
È necessario fornire al giudice seri indizi, anche solo in via preliminare, che attestino la presenza di informazioni tutelate legalmente, come segreti industriali o know-how commerciale. Solo in presenza di questi elementi, il Tribunale autorizzerà l’accesso ai dispositivi e l’acquisizione delle prove. Ma cosa si intende esattamente per “know-how tutelato”? E chi è il vero proprietario delle informazioni?
Chi è il vero proprietario delle informazioni?
Nel caso deciso dal Tribunale di Milano, la società ricorrente sosteneva che gli ex dipendenti avessero sottratto informazioni riservate relative ai progetti sviluppati per ARERA. Ma un dettaglio contrattuale ha cambiato radicalmente l’esito della vicenda.
Il contratto tra ARERA e l’appaltatore prevedeva chiaramente che tutti i materiali prodotti – software, documentazione tecnica, know-how – fossero di proprietà dell’ente pubblico. In altri termini, la società ricorrente non era titolare delle informazioni che riteneva sottratte. E poiché la titolarità effettiva è condizione essenziale per chiedere la descrizione giudiziale, il giudice ha escluso che potesse esistere un diritto violato in capo all’ex fornitore.
Non solo: l’omissione di questo dettaglio nel ricorso – la mancata indicazione della clausola contrattuale – è stata ritenuta dal Tribunale un elemento grave. Il comportamento della società è apparso reticente e poco trasparente, minando la credibilità dell’azione e influenzando negativamente l’esito del procedimento. Un errore che offre un’importante lezione per tutte le aziende che intendano attivare tutele giudiziarie in materia di segreti industriali.
Abuso del processo e concorrenza sleale
Il Tribunale di Milano ha analizzato la vicenda, arrivando a una conclusione netta: non c’è stata concorrenza sleale, né sottrazione di segreti industriali. Il trasferimento di cinque lavoratori – per quanto qualificati – non ha rappresentato un attacco strutturato o un danno all’organizzazione dell’ex datore di lavoro. Il giudice ha ricordato che la mobilità dei lavoratori è un principio fondamentale, tutelato anche a livello europeo, e che il passaggio di dipendenti tra aziende concorrenti fa parte delle normali dinamiche di mercato.
Quanto ai file rinvenuti sui dispositivi degli ex dipendenti, nessuno è risultato qualificabile come “segreto commerciale”. I documenti relativi ad ARERA erano di titolarità di quest’ultima, come previsto dal contratto, mentre tutti gli altri materiali (presentazioni interne, file di configurazione, manuali) erano generici, spesso obsoleti e comunque privi di quelle caratteristiche di segretezza e valore economico richiesti dalla legge per attivare la tutela cautelare (approfondisci La tutela dei segreti commerciali: strategie e strumenti per le imprese).
Il punto fondamentale, però, è stato l’approccio con cui la società ricorrente ha gestito il ricorso. Non aveva menzionato – né nel ricorso né nei primi atti – l’esistenza della clausola contrattuale che attribuiva la titolarità del software e della documentazione ad ARERA. Un’omissione grave, che ha indotto il giudice a sospettare una distorsione dello strumento processuale. L’azione cautelare era stata avviata senza rappresentare correttamente il quadro contrattuale.
Per questo motivo, il Tribunale non si è limitato a rigettare le richieste. Ha ravvisato un abuso del processo cautelare, e ha applicato l’art. 96, comma 3 del codice di procedura civile: una norma che consente al giudice di condannare la parte soccombente a pagare una somma equitativa alle controparti, anche in assenza di un danno dimostrato. Nel caso concreto, la società è stata condannata a pagare 12.000 euro per ciascuna parte resistente, oltre a 5.000 euro alla Cassa delle Ammende. Una sanzione significativa, pensata per riaffermare il principio che gli strumenti giudiziari vanno usati con correttezza, non come leva di pressione impropria.
Come proteggere seriamente le informazioni aziendali riservate
Nel settore tecnologico, dove le competenze sono altamente specialistiche e maturano attraverso l’esperienza diretta, il lavoratore resta libero di cambiare azienda. La legge non consente di trattenere un dipendente solo perché ha partecipato a progetti strategici o ricevuto formazione specifica. Se un’impresa vuole davvero limitare l’uso delle conoscenze acquisite dopo la cessazione del rapporto, deve intervenire in via preventiva: attraverso patti di non concorrenza validi, policy di riservatezza chiare e protocolli informatici efficaci.
La protezione delle informazioni aziendali non è automatica. Finché il rapporto di lavoro è attivo, il dipendente è vincolato al dovere di fedeltà; ma una volta uscito, senza un accordo specifico, l’azienda ha ben pochi strumenti per limitarne l’attività. Etichettare un file come “riservato” o considerare “confidenziale” una procedura interna non basta. Per godere della tutela come segreto industriale, è necessario adottare misure concrete di protezione (approfondisci Know-how commerciale: come tutelarlo e reagire in caso di “furto” di G. Rossi).
La vicenda giudiziaria analizzata dimostra quanto sia cruciale preparare contratti e misure adeguate, evitando di confondere la legittima esigenza di tutela con l’impulso – spesso emotivo – di colpire il concorrente. Le azioni cautelari sono strumenti potenti ma delicati, da attivare solo con solide basi probatorie. Un ricorso mal preparato può diventare un boomerang processuale, esponendo l’impresa a danni reputazionali e a una possibile condanna alle spese.
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Data di pubblicazione: 23 Luglio 2025
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Margherita Manca
Avvocato presso lo Studio Legale Canella Camaiora, iscritta all’Ordine degli Avvocati di Milano, si occupa di diritto industriale.