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L’articolo analizza il potere economico e digitale nell’Unione Europea, confrontando il piano di Mario Draghi per la creazione di “campioni continentali” con le nuove normative italiane contro la pirateria online. Si esplora inoltre come il tema della proprietà intellettuale, in particolare nell’uso di opere protette da copyright, stia aprendo nuovi campi di battaglia legale e regolamentare nel contesto della crescente influenza delle Big Tech.
Internet è stato definito come “il più grande esperimento di anarchia mai realizzato”, una rete globale che sfugge alle convenzioni e alle regole tradizionali. Eric Schmidt, ex CEO di Google dal 2001 al 2011, descrive così il Web, spiegando che si tratta di qualcosa che “l’umanità ha costruito ma che non comprende appieno” (si v. “Google chief: My fears for Generation Facebook” su Indipendent.com). Questa affermazione cattura la natura fluida e decentralizzata del web, che in quel decennio ha visto l’espansione travolgente dei motori di ricerca, dei social media e del commercio online, culminando con il lancio di Google Chrome nel 2008 e l’introduzione di Android, che ha rivoluzionato il mercato mobile.
Nel suo mandato alla guida di Google, Schmidt ha contribuito a trasformare Internet da una scoperta tecnologica ad uno dei principali acceleratori dell’economia globale grazie allo sviluppo di servizi come Gmail e Google Maps, mentre la società lanciava la sua offerta pubblica iniziale (IPO) nel 2004. Questo periodo è coinciso con l’ascesa di Internet come spazio di innovazione incontrollata, ma anche come fonte di questioni etiche, disinformazione, e crescenti preoccupazioni sulla privacy online.
Mentre l’anarchia di Internet ha favorito la libertà creativa, ha anche sollevato dubbi su chi effettivamente controlli il flusso di informazioni. Il decennio che ha visto la nascita dei colossi tecnologici ha portato alla centralizzazione del potere in poche grandi aziende: le big tech.
In un’era in cui l’anarchia digitale ha moltiplicato le possibilità di espressione e scambio, è l’attenzione degli utenti che è diventata la valuta più preziosa. Piattaforme come Google, Facebook e TikTok competono per catturare questa attenzione, trasformandola in potere economico e sociale. In questa nuova economia dell’attenzione, il controllo non si basa più sul possesso di risorse materiali, ma sulla capacità di influenzare ciò che vediamo e facciamo online. Chi domina l’attenzione, domina il mercato.
Le piattaforme digitali utilizzano algoritmi complessi per analizzare e prevedere le preferenze degli utenti, offrendo contenuti altamente personalizzati che aumentano il tempo di permanenza online. Questo processo alimenta un’industria basata su pubblicità mirata e vendita di dati, trasformando ogni click e ogni visualizzazione in profitto. Un esempio recente viene da Instagram, il cui CEO Adam Mosseri ha spiegato che un feed basato solo su chi seguiamo ridurrebbe l’uso della piattaforma (si v. “Instagram Chief Says ‘Following’ Feed Option Won’t Work” by A. Hutchinson su Socialmediatoday.com). Il 50% dei contenuti di Instagram oggi è suggerito dagli algoritmi, proprio per aumentare l’engagement e trattenere gli utenti più a lungo.
La vera domanda è: chi sta realmente controllando chi? Mentre le piattaforme continuano a personalizzare e manipolare i contenuti per aumentare la loro influenza, la nostra libertà digitale appare sempre più limitata.
Le normative, come il Digital Markets Act dell’Unione Europea, cercano di contrastare questo squilibrio, ma la velocità con cui le tecnologie si evolvono rendono questo compito quasi impossibile, soprattutto con l’avvento dell’intelligenza artificiale.
Con l’Artificial Intelligence Act (AI Act), l’Unione Europea cerca di regolamentare le tecnologie AI, affrontando temi complessi legati anche alla proprietà intellettuale. Anche se questo argomento è rimasto praticamente marginale, uno degli interrogativi ricorrenti riguarda chi detiene i diritti sui contenuti generati dagli algoritmi e come le opere degli autori siano utilizzate durante il training delle AI. Queste tecnologie, capaci di creare testi, immagini e musica, stanno sfidando i concetti tradizionali di creatività e proprietà intellettuale, aprendo un nuovo campo di battaglia e confronto legale.
L‘AI Act impone trasparenza sull’origine dei dati usati per addestrare le AI, ma non risolve il problema del copyright. Le aziende devono documentare i dati utilizzati, ma l’uso di opere protette da copyright, nel data mining o scraping che dir si voglia, resta un tema caldo. La Direttiva Copyright dell’UE, sebbene mirasse a proteggere i diritti degli autori, include deroghe che consentono l’uso massiccio di opere senza consenso esplicito, specie per fini tecnologici (si v. “Intelligenza Artificiale: il silenzioso sfruttamento delle opere degli autori” di A. Canella).
Questa eccezione contenuta nella direttiva Copyright ha portato vantaggi consistenti alle aziende tecnologiche, accelerando l’innovazione, ma ha anche sollevato forti critiche da parte degli autori, che vedono il loro lavoro sfruttato senza compenso. Mentre l’AI Act introduce norme più stringenti per la trasparenza (art. 53, lettera c, AI Act), la remunerazione per l’utilizzo delle opere protette già sfruttate senza consenso (e compenso) rimane una questione irrisolta. Gli autori riusciranno a recuperare la refurtiva o l’intelligenza artificiale finirà per erodere il valore delle creazioni umane?
Le Big Tech — Google, Meta, Amazon, Apple, Microsoft e OpenAI — sono diventate i principali arbitri del flusso di informazioni digitali e i motori dello sviluppo dell’intelligenza artificiale. Il potere economico e sociale che queste aziende detengono, grazie al controllo delle tecnologie AI, solleva questioni urgenti sulla concentrazione del potere. Le normative europee, come il Digital Services Act (DSA) e il Digital Markets Act (DMA), tentano di affrontare queste sfide, ma il controllo delle tecnologie AI rappresenta un nuovo e complesso livello di regolamentazione.
Con l’ascesa di OpenAI e lo sviluppo di modelli avanzati come GPT, stiamo assistendo alla formazione di un oligopolio tecnologico (si v. “La lunga battaglia degli Stati contro monopoli e oligopoli delle Big Tech” su Rainews.it). Le poche aziende che controllano le infrastrutture AI e l’accesso ai dati plasmano il futuro digitale, influenzando non solo i mercati ma anche il modo in cui apprendiamo e interagiamo con le informazioni. La difficoltà per i regolatori è trovare un equilibrio tra la protezione dei diritti degli utenti e la promozione dell’innovazione tecnologica, un compito reso più arduo dalla velocità con cui le AI si evolvono.
Nonostante alcuni critici vedano nell’AI una possibile bolla speculativa, simile a quella del Metaverso, le applicazioni concrete dell’intelligenza artificiale in settori come la sanità, l’educazione e la finanza dimostrano che la questione è tutt’altro che temporanea. Il problema resta: le piattaforme digitali che guidano questa innovazione saranno in grado di autoregolamentarsi, o sarà necessario un intervento più incisivo da parte dei governi per evitare un monopolio digitale che minaccia la democrazia stessa?
Mario Draghi ha presentato un piano ambizioso per rilanciare la competitività europea attraverso la creazione di “campioni continentali”, ovvero grandi aziende europee in grado di competere con i colossi americani e cinesi. Il piano, presentato alla Commissione Europea nel 2024, mira a promuovere fusioni e acquisizioni tra le imprese del continente per creare entità con la massa critica necessaria a imporsi a livello globale. L’obiettivo di Draghi è chiaro: ridurre il divario tecnologico e economico con le superpotenze globali, rafforzando l’autonomia industriale europea (si v. “Mario Draghi’s competitiveness report sets a political test for the EU” su Chathamhouse.org/).
Questo approccio ha suscitato dibattiti all’interno dell’UE, con alcuni, come la commissaria uscente Margrethe Vestager, che vedono nelle fusioni un rischio per la concorrenza interna. Vestager ha avvertito che allentare le normative antitrust potrebbe ridurre la competizione tra le aziende europee e danneggiare i consumatori, portando a prezzi più alti e meno innovazione. Tuttavia, la nuova commissaria alla concorrenza, Teresa Ribera, sembra orientata a riformare le normative per favorire queste fusioni, bilanciando però l’interesse pubblico e quello economico (si v. “European Union: Riberia Gets Role As Hybrid Commissioner” su gfmag,com).
Il piano di Draghi rappresenta una svolta strategica per l’Europa, ma resta da vedere se la spinta verso la creazione di “campioni continentali” sarà in grado di superare le sfide interne ed esterne e se questa concentrazione di potere industriale sarà un motore per l’innovazione o una minaccia per la concorrenza e la democrazia.
Se il piano di Mario Draghi per creare campioni continentali mira a rafforzare l’industria europea, promuovendo la formazione di grandi conglomerati attraverso fusioni e acquisizioni per competere con i giganti tecnologici internazionali come Google e Amazon, per ridurre il gap tecnologico e economico tra Europa, Stati Uniti e Cina, puntando all’indipendenza economica del blocco europeo, in Italia accade qualcosa di singolare.
La recente riforma introdotta dal Dl Omnibus del 2024, in particolare l’articolo 6-ter che riguarda la pirateria online, ha sollevato importanti questioni sul controllo e la regolamentazione del flusso di informazioni in rete. Questa volta, il tema della proprietà intellettuale, complici gli interessi sui diritti calcistici, diventa centrale (si v. “Dl Omnibus in Gazzetta, carcere per chi non denuncia la pirateria online” su ntplusiritto del 9 ottobre 2024)
La nuova normativa introduce obblighi stringenti per i fornitori di servizi internet, imponendo loro di denunciare prontamente attività illegali legate alla pirateria.
Ma dietro queste riforme c’è un altro aspetto intrigante: alcune fonti, come riportato da Wired, ipotizzano che l’attacco hacker contro il sistema pirata del “pezzotto” di agosto 2024 non sia stato opera di un collettivo indipendente, ma di un’operazione orchestrata su commissione da un attore con interessi specifici.
Wired ha sollevato il sospetto che dietro l’attacco ci fosse una società commerciale specializzata, come Mutin.ee, che offre servizi avanzati – anche a governi – per scopi che vanno oltre la semplice protezione del copyright, compreso l’oscuramento di blog di dissidenti (si v. “Pirateria online, c’è qualcosa che non torna nell’attacco hacker contro l’operazione di disturbo del pezzotto di fine agosto” su Wired.it). Questo episodio mette in evidenza l’evoluzione del concetto di controllo digitale, dove non solo le grandi aziende tecnologiche, ma anche operatori meno visibili potrebbero essere coinvolti in strategie di sorveglianza o manipolazione del traffico web
Se da una parte Draghi punta a creare un ambiente competitivo capace di rivaleggiare con i colossi esteri, dall’altra la normativa italiana cerca di imporre nuove regole per gestire un web sempre più complesso rischiando il collasso delle procure (si v. “Le nuove norme anti-pirateria sono ancora peggio di quanto si pensasse: rischiano nella migliore delle ipotesi di essere ignorate, nella peggiore di mandare il tilt le procure” su Wired.it). Il confine tra tutela della proprietà intellettuale, la speculazione e la sorveglianza attiva e interessata è sempre più labile.
Avvocato Arlo Canella