Ogni soluzione giuridica nasce da un’analisi fondata, rigorosa e autonoma.
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Uno studio legale può fare ricerca “indipendente”? La risposta è sì, e anzi dovrebbe farlo, se vuole offrire servizi davvero interessanti, aggiornati e strategici. In questo articolo raccontiamo perché la ricerca indipendente, scientifica, non è solo appannaggio delle università, ma può diventare il cuore pulsante di una pratica legale più libera, rigorosa ed efficace. Approfondiamo il significato di divulgazione responsabile e distinguiamo la consulenza autentica da quella che si limita a vendere illusioni predatorie.
È opinione diffusa che la ricerca giuridica sia terreno esclusivo dell’accademia, delle università, dei centri di studio. Un avvocato, si dice, dovrebbe limitarsi a risolvere i problemi dei clienti, affidandosi a ciò che già esiste: dottrina consolidata, giurisprudenza aggiornata, soluzioni pronte all’uso. Ma questa visione, apparentemente pratica, in realtà è miope.
Nel diritto, applicare senza comprendere è come navigare a vista in mare aperto. Le norme cambiano, le interpretazioni giurisprudenziali anche, le esigenze delle imprese si moltiplicano. Per stare al passo – e soprattutto per anticipare i problemi anziché inseguirli – uno studio legale deve allenarsi a pensare in autonomia. Fare ricerca non è perdersi in speculazioni: è scegliere di andare a fondo, oltre il “si è sempre fatto così”.
La ricerca non si limita a trovare una risposta: costruisce un contesto, una visione sistemica del problema, capace di trasformare ogni consulenza in conoscenza strutturata. In questo senso, non è un lusso, ma un investimento. Uno studio legale che fa ricerca migliora sé stesso: affina il metodo, sviluppa sensibilità critica, si confronta con scenari nuovi e si prepara a gestire la complessità senza affidarsi al pilota automatico (Un esempio? L’approfondimento su “Struttura e configurazione giuridica del Web” nasce proprio da questa esigenza di andare oltre l’applicazione meccanica delle norme, per capire a fondo un fenomeno).
Per questo, scrivere articoli, fare divulgazione, studiare casi e tendenze non è tempo sottratto ai clienti, ma tempo speso per servirli meglio. È proprio grazie alla ricerca che lo studio legale smette di essere un semplice esecutore e diventa un interprete del diritto, capace di dare soluzioni robuste, aggiornate e non standardizzate.
Quando si parla di ricerca indipendente, il rischio è confonderla con l’idea – spesso utopica – di una ricerca totalmente neutrale. In realtà, nessun osservatore è mai davvero neutrale: ogni studio, ogni analisi porta con sé un punto di vista, una sensibilità, un interesse. Eppure, si può essere indipendenti pur senza essere “asettici”.
Per uno studio legale, l’indipendenza non si misura in termini ideologici, ma metodologici. Significa condurre la ricerca senza pressioni esterne, ma con piena consapevolezza della propria posizione: i propri clienti, il proprio ambito di specializzazione, la propria etica professionale. Indipendenza, in questo senso, vuol dire non piegare la realtà alle esigenze commerciali, ma cercare di comprenderla per quello che è, con spirito critico e apertura al confronto.
Fare ricerca giuridica non vuol dire scrivere saggi astratti, ma interrogarsi sui problemi veri, andare oltre la risposta immediata, resistere alla tentazione di offrire solo ciò che “vende”. È un esercizio faticoso, perché richiede tempo, studio, risorse. Ma è anche una scelta strategica: uno studio che investe nella qualità del pensiero, difende la propria autonomia, costruisce un’identità solida e si sottrae alla logica del “tutto e subito”.
Infine, la ricerca rigorosa è anche una forma di responsabilità: scegliere di non banalizzare, di non alimentare disinformazione giuridica, di non nascondersi dietro formule ambigue (approfondisci: Semplificazione vs. banalizzazione nell’era dell’accelerazione digitale – Canella Camaiora). Significa – ogni volta che si scrive, si studia o si risponde a una domanda – dire qualcosa che sia vero, utile e verificabile. Anche quando è complesso. Anche quando costa fatica.
Spiegare il diritto non è mai un esercizio banale. Chi prova a farlo davvero, sa che la sfida più difficile è rendere chiaro ciò che è complesso, senza renderlo superficiale. In un’epoca dominata dall’informazione veloce, frammentaria e spesso disattenta, fare divulgazione giuridica è quasi un atto controcorrente: serve lentezza, cura e, soprattutto, rispetto per il contenuto.
Il diritto non è nato per essere “semplice”. È uno strumento per regolare i conflitti, orientare le scelte, bilanciare gli interessi in gioco. Ogni norma ha una genesi, ogni principio ha un equilibrio, ogni sentenza disegna un confine. Tagliare via questi elementi per rendere tutto “più digeribile” non aiuta nessuno: svuota il discorso di significato e genera false certezze.
Divulgare, invece, è un’altra cosa. Significa fare chiarezza, non semplificare. È il lavoro paziente di chi seleziona le parole giuste, fa esempi pertinenti, collega i concetti alle esperienze reali. È il contrario del tecnicismo, ma anche del linguaggio appiattito. La buona divulgazione non rinuncia alla precisione, ma la traduce in termini accessibili, mantenendo intatto il rigore.
Per riuscirci servono tre ingredienti fondamentali. Il primo è l’uso corretto delle fonti: senza basi normative solide, la divulgazione diventa opinione. Il secondo è la capacità di contestualizzare: nessuna norma ha senso da sola, ogni disposizione vive nel suo tempo e nella sua logica. Il terzo è il linguaggio giusto: non quello della casta, né quello della semplificazione eccessiva, ma quello che spiega senza svendere la complessità. Solo così la divulgazione giuridica può diventare un servizio utile, una vera forma di accessibilità culturale.
Chi si rivolge a un avvocato lo fa spesso in cerca di certezze. È comprensibile: davanti a una questione legale, a un contratto da firmare o a una controversia in corso, è naturale voler sapere subito cosa fare, cosa si rischia, quali sono le soluzioni possibili. Ma proprio qui si gioca la differenza tra una consulenza autentica e un’illusione ben confezionata.
Il diritto non funziona con risposte binarie. Non è un meccanismo da “sì” o “no”, da vero o falso, da bianco o nero. Ogni questione giuridica è immersa in un contesto specifico, fatto di fatti, norme, interpretazioni, margini di incertezza. Fingere che esista una risposta pronta, universale, valida per tutti è un errore. O, peggio, è una truffa.
Una consulenza seria non promette l’impossibile, ma offre un metodo. Significa capire a fondo il problema, analizzare le fonti normative e giurisprudenziali rilevanti, valutare le opzioni e spiegare al cliente non solo “cosa” può fare, ma anche “perché” e “con quali conseguenze”. È un processo fatto di trasparenza e responsabilità, in cui il professionista non ha paura di dire “dipende”, se subito dopo spiega “da cosa” (è il caso, ad esempio, dell’approfondimento che abbiamo dedicato al ruolo strategico dei domain names “I nomi a dominio sono ancora centrali per le imprese?”: non ci siamo limitati a descrivere il problema, ma lo abbiamo ricostruito in modo concreto e multipotenzialità, analizzando dinamiche di mercato e strategie realistiche per le imprese).
Chi fa vera consulenza non vende risposte, ma strumenti per orientarsi. Non tira fuori soluzioni dal cilindro, ma costruisce percorsi sostenibili. Anche qui, la ricerca torna protagonista: più il professionista è abituato a pensare con la propria testa, a interrogarsi, a studiare, più sarà in grado di dare risposte efficaci, realistiche, durevoli. Perché il suo sapere non è preso in prestito da altri, ma è frutto di un lavoro autentico.
Avvocato Arlo Canella