“L’effetto pecora” su LinkedIn: quando l’autorevolezza serve a drogare il consenso

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Abstract

Sempre più professionisti ricevono su LinkedIn messaggi privati che non cercano confronto, ma consenso. Messaggi apparentemente educati e personali che rimandano a contenuti autopromozionali, distribuiti in serie, spesso da profili autorevoli o noti. A volte rispondiamo per cortesia, a volte mettiamo un like per abitudine o timore. Ma proprio quei gesti alimentano una dinamica distorsiva del valore, dove i contenuti emergono non per merito, ma per pressione sociale. In questo articolo, nato da osservazione diretta e riflessione personale, proviamo a capire come si è arrivati a questa forma evoluta di abuso. E soprattutto, come uscirne con eleganza.

Gli imbonitori digitali si sono fatti più sofisticati

LinkedIn nasce come una rete per professionisti. Un luogo dove si incontrano esperienze, competenze, opportunità. Ma negli ultimi anni qualcosa è cambiato. E non sto parlando del fatto che LinkedIn somigli sempre più al Facebook degli anni d’oro. Mi riferisco a qualcosa di più profondo: la crescente fatica nel distinguere le voci autentiche da quelle strategiche, i contenuti che valgono il nostro tempo da quelli che cercano solo consenso. È diventato difficile capire cosa meriti attenzione, cosa sia frutto di sforzo e competenza, e cosa invece sia solo un’operazione d’immagine.

Una piazza, sì. Ma una piazza finta, manipolabile, distorsiva. Dove troppo spesso ci si trova sommersi da messaggi privati — le cosiddette LinkedIn Mail — che non hanno nulla a che vedere con vere opportunità o collaborazioni. Non è spam nel senso classico: non vendono occhiali a raggi X o pillole miracolose. Gli imbonitori digitali si sono fatti più sofisticati. I messaggi sono travestiti da corrispondenza personale, spesso personalizzati con l’IA, e contengono sempre e solo l’invito a leggere un articolo, scaricare un white paper, guardare un video. Ma tutto ruota attorno a chi scrive, mai a chi riceve.

Il meccanismo è sottile, ma neanche troppo nascosto: il nuovo contatto scrive in modo cortese e personalizzato, ma il messaggio è in serie, autoreferenziale, e serve solo a promuovere sé stesso. È la versione 2025 dell’autopromozione. Solo che passa per privata, intima, e per questo è ancora più invasiva.

Non è solo una questione di buon gusto. È diventata una questione sistemica. È da tempo che coltivo questa sensazione, e oggi mi pare evidente: il rumore di fondo sta soffocando il valore del networking (approfondisci: L’era dei venditori “porta a porta” su LinkedIn: marketing o abuso della privacy? – Canella Camaiora).

Ci stiamo dimenticando che il confronto tra professionisti serve anche — e soprattutto — a costruire fiducia, scambio, futuro. Non solo a vendere.

Intendiamoci: nessuno ha da ridire sul giovane startupper che ci prova, che scrive con entusiasmo e magari sbaglia tono, ma lo fa in buona fede. Il punto è un altro. Il vero fastidio nasce quando a usare questi trucchi sono professionisti di lungo corso, con ruoli apicali, magari supportati da consulenti aggressivi o senza etica. Persone che conoscono bene le regole delle relazioni, anche digitali, e scelgono consapevolmente di violarle. In quei casi non è inesperienza. È una scorciatoia studiata. È craccare il sistema.

LinkedIn Mail: l’autopromozione che altera la percezione

Insomma, lo spam su LinkedIn oggi ha molte facce. Accanto a quello esplicito, fatto da bot, messaggi copia-e-incolla o profili falsi, esiste una forma più subdola e difficile da tracciare: l’autopromozione mascherata da networking, veicolata tramite messaggi privati o LinkedIn Mail.

Parliamo di professionisti in carne e ossa, spesso affermati, che utilizzano la messaggistica privata per inviare articoli, post o contenuti autoreferenziali a un’intera rete di contatti, con l’obiettivo implicito di ottenere visibilità pubblica.

A differenza dello spam tecnico — quello che LinkedIn intercetta e rimuove in automatico (nel solo secondo semestre del 2024 sono stati eliminati 109,7 milioni di contenuti spam e scam, di cui il 98,9% filtrato automaticamente) — questa pratica passa completamente sotto i radar della moderazione. Non ci sono numeri ufficiali, perché formalmente non si tratta di contenuti volgari, fraudolenti o apertamente commerciali. Ma è proprio questa ambiguità a renderla efficace — e per certi versi più pericolosa.

Quando il messaggio via LinkedIn Mail — che chiede attenzione per un post, un commento, un articolo — arriva da un contatto stimato o addirittura “autorevole”, l’effetto è disarmante e innesca un meccanismo che si autoalimenta. Molti utenti mettono “like” per cortesia, o per non sembrare scortesi. E quel like, anche se dato senza convinzione, fa da leva per gli altri.

Quando il contenuto compare in bacheca con una scia di approvazioni, gli utenti successivi presumono che sia meritevole. È l’effetto pecora, o se vogliamo usare i termini della letteratura, il “social proof” di Cialdini (1984): quando siamo incerti, guardiamo al comportamento degli altri per decidere cosa fare (Influence: Science and Practice). Ma non è solo questione di percezione: è un vero meccanismo di conformismo, come mostrato da Solomon Asch (1951), secondo cui circa un terzo delle persone tende ad allinearsi a un’opinione di gruppo anche quando sa che è sbagliata (Effects of Group Pressure upon the Modification and Distortion of Judgments).

In ambito digitale, questo schema si amplifica: un piccolo nucleo iniziale di interazioni può generare una cascata informativa, in cui gli utenti non valutano più il contenuto per quello che è, ma seguono il consenso già visibile. È ciò che descrivono Bikhchandani, Hirshleifer e Welch (1992) nella loro teoria delle “informational cascades” (A Theory of Fads, Fashions, Custom, and Cultural Change), e che Anderson e Holt (1997) hanno poi confermato sperimentalmente in laboratorio (Information Cascades in the Laboratory).

La tecnologia avanza, ma i comportamenti umani restano sorprendentemente stabili: cercare approvazione, seguire la maggioranza, evitare il conflitto. E LinkedIn — pur essendo uno spazio professionale — non fa eccezione.

Timore reverenziale 2025

Chi scrive articoli mediocri e li promuove a tappeto via messaggio diretto o LinkedIn Mail non sempre è uno sprovveduto. Anzi, spesso ha un profilo impeccabile, un passato da dirigente o una lunga lista di incarichi prestigiosi. È qui che la dinamica si fa sottile, quasi inconfessabile: molti professionisti, pur trovando inopportuno il messaggio ricevuto, scelgono di non rispondere. O peggio, mettono un like.

Non lo fanno perché il contenuto li abbia colpiti. Lo fanno per rispetto, o meglio, per soggezione. Perché il mittente “conta”. Perché è noto, è stimato, è visibile. Perché, in fondo, ci è stato insegnato che non si dice mai di no a un collega senior, a un nome riconosciuto, a uno con seguito. È una forma di educazione distorta, che ci chiede di non dubitare di chi ha credito sociale.

Ma c’è anche un altro lato, più insidioso: chi gode di prestigio può usarlo come grimaldello digitale, in modo sommerso, silenzioso, sistematico. Le richieste inviate attraverso messaggi privati — seriali, ripetute, apparentemente amichevoli — sono una forma di pressione personale quasi ricattatoria, che genera un consenso pubblico artefatto e distorsivo.

Chi reagisce senza ribellarsi finisce per fare da amplificatore inconsapevole. Non per convinzione, ma per timore reverenziale, per evitare frizioni, per non disturbare l’equilibrio relazionale.

E così, contenuti mediocri ottengono più attenzione di altri, mentre chi comunica con misura, etica e rispetto viene “invisibilizzato”. È uno spam che non si vede — ma che si fa sentire, forte e chiaro. E nel 2025, lo fa attraverso le facce rispettabili e ben educate del mondo professionale.

Ma i nostri like — per timore reverenziale o, peggio, per piaggerianon sono innocui. Al contrario: diventano la benzina di un’economia dell’abuso. Contribuiscono a far apparire desiderabile un contenuto che non lo è. E questo, a sua volta, genera ulteriori click, ulteriori like, ulteriori condivisioni.

Il valore percepito non nasce dalla qualità, ma dalla deferenza. È una forma di consenso drogato, che premia chi ha status, non chi ha valore. Una vecchia storia. Antica quanto l’umanità.

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Ma noi siamo vittime o carnefici?

E noi? Spesso collaboriamo, senza volerlo. Alimentiamo non l’economia dell’attenzione, ma quella dell’abuso. Non segnaliamo, non ignoriamo, non ci sottraiamo. Anzi, magari ricambiamo il favore. Perché “un domani potrei averne bisogno”, o perché “non voglio farmi nemici”. È umano, comprensibile. Ma è anche ciò che rende possibile l’abuso.

E allora forse è il caso di chiederselo: quante volte abbiamo scambiato l’autorevolezza per diritto di invadere? Quante volte, nel nostro silenzio, abbiamo aiutato l’abuso a sembrare norma?

Saper dire “no”, in contesti professionali, è sempre stato difficile. Farlo in pubblico può sembrare scortese; farlo in privato, su LinkedIn, rischia di incrinare relazioni che si vorrebbero mantenere. E così, l’abitudine a non esporsi ci porta a cliccare like per automatismo, a rispondere per cortesia, a tollerare per inerzia.

Ma a furia di non dire nulla, la comunicazione si riempie di falsità. La manipolazione prospera nel rumore, oggi potenziata dall’intelligenza artificiale.

Recuperare il proprio tempo, la propria attenzione, non è un atto di ribellione: è un gesto di lucidità. Significa riconoscere che l’attenzione non è infinita, e che darla a chiunque ce la chieda non è apertura, è dispersione programmata.

Essere educati non significa accettare tutto. Essere professionali non vuol dire sopportare ogni forma di autopromozione.

Ogni utente ha il diritto — e il dovere — di scegliere chi merita ascolto, seguito, sostegno. Non in base al nome, né alla rete, ma in base a ciò che comunica, a come lo fa, e al rispetto che mostra per il tempo degli altri.

Questo vale anche per i like: cliccarli senza convinzione contribuisce a drogare la percezione collettiva del valore. E quindi: è lecito non metterli. È lecito non rispondere. È lecito silenziare, ignorare, cliccare su “disiscriviti”.

Non c’è bisogno di fare crociate. Ma sottolineare ciò che non è più ovvio, questo sì.

Occorre ritrovare un equilibrio valutativo, personale, etico:
“Mi interessa davvero?”
“Cosa mi dà?”
“Rispetta il mio tempo?”

Se la risposta è no, non si tratta di maleducazione.
Si tratta di igiene mentale. Di cura professionale. E, forse, anche di contribuire, nel nostro piccolo, a un futuro migliore.

Ah, dimenticavo: ringrazio chi mi ha subissato di LinkedIn Mail.
Mi ha ispirato questa riflessione autentica.
Hand crafted.

© Canella Camaiora S.t.A. S.r.l. - Tutti i diritti riservati.
Data di pubblicazione: 14 Luglio 2025

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Avv. Arlo Cannela

Arlo Canella

Managing & founding partner, avvocato del Foro di Milano e cassazionista, responsabile formazione e ricerca indipendente dello Studio CC®.

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