Abstract
In un’economia sempre più basata su beni immateriali, i gruppi multinazionali hanno raffinato strategie di pianificazione fiscale che sfruttano intangibili formalmente registrati ma non sempre legati alla reale creazione di valore. In questo scenario, l’OCSE ha posto l’attenzione su una categoria spesso trascurata: i value enhancers, ovvero quei fattori non possedibili né cedibili che influenzano comunque la redditività aziendale. Sinergie di gruppo, vantaggi di localizzazione e forza lavoro organizzata sono esempi chiave di questi potenziatori di valore. L’articolo analizza la loro rilevanza nel transfer pricing, ne chiarisce la distinzione rispetto agli intangibili propriamente detti e ne discute il trattamento contabile e metodologico ai fini della determinazione dei prezzi di trasferimento.
Value enhancers vs. beni immateriali
Negli ultimi anni, i beni intangibili — come marchi, brevetti, software, know-how — hanno assunto un ruolo sempre più importante nel panorama economico globale, incidendo sulle strategie fiscali dei gruppi multinazionali, in particolare sui prezzi di trasferimento.
Globalizzazione e digitalizzazione hanno trasformato i modelli di business: le multinazionali, con entità dislocate nel mondo, si sono specializzate in funzioni specifiche, tra cui la gestione dei beni immateriali. Pensiamo, ad esempio, a una casa madre statunitense che concentra la proprietà dei brevetti in una società controllata con sede in Irlanda, pur essendo il know-how sviluppato da team di ricerca dislocati in Italia e Germania.
Questa evoluzione ha favorito pianificazioni fiscali aggressive, mirate a minimizzare la tassazione nei paesi dove si svolgono le attività economiche, trasferendo reddito verso giurisdizioni a fiscalità privilegiata (i cosiddetti paradisi fiscali). Una pratica frequente è l’allocazione di intangibili a società offshore — ad esempio alle Bermuda — che ricevono i profitti solo in quanto proprietarie giuridiche degli asset, anche se non hanno sostenuto alcun costo reale per il loro sviluppo o mantenimento.
Per contrastare tali distorsioni, l’OCSE ha introdotto il piano BEPS (Base Erosion and Profit Shifting). In particolare, le Azioni 8–10, raccolte nel rapporto finale Aligning Transfer Pricing Outcomes with Value Creation (5 ottobre 2015), hanno fissato il principio che l’attribuzione dei profitti tra imprese associate debba riflettere la reale creazione di valore economico, e non basarsi esclusivamente su strutture giuridiche o formali. Le linee guida raccomandano infatti un’analisi sostanziale delle funzioni svolte, dei rischi assunti e degli asset utilizzati, da parte dei diversi soggetti coinvolti nella transazione.
Come vedremo nei paragrafi successivi, l’OCSE individua criteri chiari per valutare correttamente il contributo economico effettivo, al di là della sola titolarità legale degli asset. Tali criteri sono fondamentali per comprendere il ruolo dei cosiddetti value enhancers, spesso trascurato ma decisivo nel contesto dei prezzi di trasferimento.
È in questo scenario che emerge una distinzione cruciale: quella tra beni immateriali propriamente detti e value enhancers. Si tratta di elementi immateriali che potenziano il valore dell’impresa, come una forza lavoro altamente qualificata, sinergie tra società del gruppo, o economie derivanti dalla localizzazione geografica. Questi elementi, pur non essendo giuridicamente possedibili né cedibili, possono incidere in modo significativo sulla redditività di una transazione infragruppo — e devono quindi essere considerati nelle analisi di transfer pricing.
Che cosa sono esattamente i value enhancers?
Dopo aver delineato il contesto normativo e la distinzione rispetto agli intangibili classici, è utile chiarire che cosa si intende per value enhancers e perché sono rilevanti per il transfer pricing.
Nel dibattito fiscale, l’attenzione si concentra spesso su beni immateriali tradizionali — come brevetti, marchi o know-how — ma esiste una categoria più sottile e difficile da individuare: i value enhancers (in italiano: potenziatori di valore). Si tratta di elementi intangibili che accrescono la capacità dell’impresa di generare reddito, pur non essendo né giuridicamente posseduti né cedibili separatamente. E proprio per questo, non possono essere ignorati nella determinazione dei prezzi di trasferimento.
Dal punto di vista contabile, i value enhancers non sono qualificabili come “attività”, perché:
- non soddisfano i criteri previsti dagli standard setter (gli organismi che definiscono i principi contabili internazionali);
- non sono alienabili autonomamente sul mercato.
Tuttavia, la loro esistenza ha effetti reali sull’equilibrio economico tra entità collegate e indipendenti. I value enhancers alterano la comparabilità tra imprese del gruppo e operatori terzi e devono dunque essere considerati attentamente nell’analisi di transfer pricing. Vediamo tre esempi concreti.
Un primo esempio riguarda le sinergie di gruppo. Quando le imprese di un gruppo multinazionale operano in modo coordinato, possono generare un surplus di valore che nessuna entità otterrebbe da sola. È il caso, ad esempio, di una funzione di approvvigionamento centralizzata che negozia sconti migliori grazie al potere d’acquisto aggregato, oppure di una tesoreria accentrata (cash pooling) che ottimizza il costo del debito per tutte le società coinvolte. Anche la gestione condivisa dei servizi amministrativi può ridurre i costi e migliorare l’efficienza. Questi vantaggi — se derivano da scelte strategiche consapevoli — vanno riconosciuti e, se necessario, valorizzati. I benefici incidentali o non programmati, invece, restano fuori dal perimetro rilevante.
Un’altra categoria di value enhancers è costituita dalle caratteristiche del mercato locale e dalle economie di localizzazione (location savings). Un’impresa che produce in un paese a basso costo — ad esempio per via di salari contenuti o incentivi pubblici — può ottenere margini più elevati rispetto a imprese operanti in mercati maturi. Ma a chi spetta il beneficio? Alla consociata locale? Alla casa madre? Alle due in proporzione? Le linee guida OCSE invitano ad analizzare con attenzione:
- se l’economia di localizzazione esiste e in quale misura;
- se tali risparmi vengono trasferiti a terzi (clienti o fornitori indipendenti);
- come si comporterebbero parti indipendenti in circostanze simili.
Un caso a parte riguarda la forza lavoro organizzata (assembled workforce), cioè l’insieme di risorse umane qualificate e integrate che operano come un sistema. Non si tratta semplicemente di avere personale competente, ma di disporre di un team strutturato e coordinato, in grado di garantire continuità operativa e know-how. Secondo l’OCSE, il trasferimento di un’attività comprensiva della forza lavoro può comportare un vantaggio economico per l’acquirente, e dunque richiedere aggiustamenti nei prezzi di trasferimento. È però importante distinguere questo fenomeno dal secondment, ovvero l’assegnazione temporanea di singoli dipendenti ad altre entità del gruppo, che può implicare il trasferimento di conoscenze tecniche o beni immateriali e va analizzato separatamente secondo il principio di libera concorrenza.
In definitiva, i value enhancers non sono “intangibili” in senso stretto, ma possono incidere in modo sostanziale sul valore di una transazione infragruppo. Ignorarli significa falsare l’analisi di comparabilità, mentre considerarli consapevolmente consente di allineare il risultato fiscale con la reale creazione di valore.
Come trattare i value enhancers nel transfer pricing
Una volta identificati, i value enhancers pongono una questione centrale: come devono essere trattati a livello contabile e fiscale? Pur non potendo essere iscritti autonomamente in bilancio, hanno effetti concreti sul valore dell’impresa e vanno riconosciuti nei meccanismi di determinazione dei prezzi di trasferimento.
Per loro natura, i value enhancers non rientrano tra le immobilizzazioni immateriali, in quanto:
- non possono essere posseduti o controllati singolarmente,
- non sono cedibili separatamente da altre funzioni, attività o strutture.
Tuttavia, questi elementi concorrono indirettamente alla formazione dell’avviamento aziendale. L’avviamento rappresenta infatti la differenza tra il valore complessivo dell’impresa e il valore aggregato degli asset identificabili. In esso confluiscono quegli elementi intangibili non contabilizzabili singolarmente, ma capaci di influenzare la capacità dell’impresa di generare reddito.
Tra questi rientrano:
- le sinergie di gruppo;
- le caratteristiche del mercato locale;
- le economie di localizzazione (location savings);
- la forza lavoro organizzata (assembled workforce).
Pur non essendo individualmente quantificabili o iscrivibili, questi fattori incidono sulla creazione di valore dell’entità aziendale nel suo complesso.
Per questo motivo, la loro corretta identificazione e valorizzazione è fondamentale per:
- determinare prezzi di trasferimento coerenti con il principio di libera concorrenza (arm’s length);
- effettuare aggiustamenti nei confronti di situazioni non comparabili tra imprese collegate e indipendenti;
- allocare equamente i benefici economici tra le varie entità del gruppo multinazionale.
Inoltre, la metodologia di analisi deve tenere conto che i value enhancers possono rappresentare un vantaggio competitivo reale, capace di influenzare in modo significativo la redditività delle transazioni infragruppo.
È quindi necessario operare una distinzione puntuale tra:
- benefici derivanti da sinergie effettive e pianificate,
- e vantaggi che sarebbero comunque accessibili a soggetti indipendenti operanti nelle stesse condizioni.
In un contesto fiscale sempre più orientato alla sostanza economica, il riconoscimento dei value enhancers richiede un’analisi più profonda rispetto alle logiche contabili tradizionali. La loro corretta individuazione non è solo una questione teorica, ma una condizione imprescindibile per garantire che i prezzi di trasferimento riflettano la reale creazione di valore all’interno del gruppo. Trascurarli può significare esporsi a contestazioni e rettifiche; considerarli con consapevolezza, invece, è un passo concreto verso una fiscalità più equa e trasparente.
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Data di pubblicazione: 24 Luglio 2025
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Giuseppe Ben Messaoud
Dott. Giuseppe Ben Messaoud. Laureato in economia e finanza presso l’Università Cattolica del Sacro cuore di Milano.