Abstract
L’evidenza scientifica in ambito clinico non coincide più esclusivamente con il trial. Questo articolo analizza come, nel contesto europeo, il concetto di evidenza si sia progressivamente ampliato attraverso nuove regole di trasparenza, l’integrazione dei dati del mondo reale e l’uso regolato dell’intelligenza artificiale. Ne emerge un modello in cui metodo scientifico, governance dei dati e responsabilità giuridica concorrono insieme a determinare il valore e l’affidabilità delle evidenze su cui si fondano le decisioni cliniche e regolatorie.
Il trial clinico è ancora il fondamento dell’evidenza scientifica?
Il trial clinico randomizzato si è affermato come il fondamento classico dell’evidenza scientifica in medicina grazie a un disegno metodologico capace di produrre risultati verificabili e condivisi. Questo modello sperimentale, consolidatosi nella seconda metà del Novecento, non nasce però in modo lineare, ma come risposta a una fase storica in cui la ricerca clinica procedeva senza regole comuni, senza protocolli standardizzati e senza una supervisione etica strutturata.
Ancora appena settant’anni fa, figure come Vladimir Demikhov conducevano esperimenti pionieristici di trapiantologia su animali, arrivando a interventi estremi che oggi sarebbero impensabili, in assenza di qualunque cornice normativa o controllo etico istituzionalizzato. Si trattava di una ricerca animata da intenti scientifici, ma affidata quasi interamente all’iniziativa del singolo sperimentatore, senza criteri condivisi per valutare rischi, benefici o riproducibilità dei risultati. In quel contesto, l’evidenza coincideva spesso con l’osservazione diretta e con l’autorità di chi conduceva l’esperimento.
È proprio in reazione a questo passato che il trial clinico controllato e randomizzato ha assunto un ruolo centrale. La randomizzazione, il confronto tra gruppi, la definizione preventiva degli endpoint e dei criteri di inclusione hanno introdotto un metodo capace di limitare i bias, rendere i risultati confrontabili e consentire una valutazione indipendente dei dati. L’evidenza scientifica smette così di essere il prodotto di esperienze isolate e diventa il risultato di un processo strutturato, documentato e riproducibile.
Questo passaggio ha avuto conseguenze che vanno oltre la metodologia. Con l’introduzione di protocolli formalizzati, la nascita dei comitati etici e la codificazione del consenso informato, il trial clinico si trasforma in uno spazio regolato, in cui la tutela dei partecipanti e la qualità dei dati diventano condizioni essenziali della ricerca. L’affidabilità dell’evidenza non dipende più soltanto dall’esito dello studio, ma dal rispetto delle regole che ne governano ogni fase, dalla progettazione alla conduzione.
Nel tempo, questo modello si è imposto come riferimento internazionale. Tuttavia, il suo significato non è rimasto immutato. Se in origine il trial clinico rappresentava soprattutto una risposta al disordine metodologico del passato, oggi è chiamato a confrontarsi con aspettative nuove: trasparenza dei processi, tracciabilità delle decisioni sperimentali e accessibilità delle informazioni prodotte. L’evidenza non è più valutata solo per come viene generata, ma anche per come viene resa verificabile all’esterno.
È su questo terreno che il diritto europeo inizia a intervenire in modo più incisivo, non per sostituire il metodo scientifico, ma per incardinarlo in un sistema di regole che ne renda visibile l’intero ciclo di vita. Il trial clinico resta il fondamento dell’evidenza, ma il contesto in cui opera cambia, aprendo la strada a una nuova fase della ricerca clinica, in cui metodo, diritto e responsabilità pubblica diventano inseparabili.
In che modo il diritto europeo ha cambiato il significato del trial?
Il fondamento storico del trial clinico non è rimasto immutato. Negli ultimi anni, l’Unione europea ha progressivamente ridefinito il significato stesso di evidenza scientifica, affiancando al rigore metodologico nuovi requisiti di trasparenza e responsabilità pubblica. Il trial clinico continua a essere il cardine della ricerca biomedica, ma opera oggi all’interno di un quadro regolatorio che ne rende visibile l’intero ciclo di vita.
Con l’entrata in vigore del Regolamento (UE) n. 536/2014 sulle sperimentazioni cliniche, tutte le ricerche condotte nell’Unione sono confluite in un sistema unitario basato su un portale unico, il Clinical Trials Information System (CTIS). Questo passaggio segna una discontinuità rispetto al passato: l’autorizzazione, la conduzione e la conclusione di uno studio non sono più frammentate a livello nazionale, ma inserite in un processo coordinato e tracciabile.
Il CTIS non è soltanto uno strumento amministrativo. Alimenta una banca dati pubblica, liberamente consultabile, che rende accessibili informazioni essenziali su ogni sperimentazione: dallo stato dello studio alle decisioni delle autorità competenti, fino ai risultati finali. In questo modo, il trial clinico entra in un ecosistema aperto, in cui la verificabilità esterna diventa parte integrante della nozione di evidenza. La ricerca non è più confinata a un dialogo tra sponsor e autorità, ma si colloca in uno spazio osservabile anche dalla comunità scientifica e dai cittadini.
Un elemento centrale di questa trasformazione è l’obbligo di pubblicare i risultati entro dodici mesi dalla conclusione dello studio, accompagnati da un riassunto in linguaggio non tecnico comprensibile ai pazienti (art. 37 del Regolamento). La regola incide in modo diretto sul modo di produrre evidenza: non solo i risultati positivi, ma anche quelli negativi o inconcludenti devono essere resi pubblici. In questo modo si riduce il rischio di distorsioni legate alla selezione delle evidenze e si rafforza l’affidabilità complessiva del patrimonio scientifico disponibile.
La pubblicazione sistematica dei risultati introduce una conseguenza rilevante: l’evidenza scientifica non coincide più solo con la correttezza del metodo, ma anche con la sua esposizione alla verifica pubblica. Ogni dato entra nel dominio comune e può essere valutato, discusso o messo in relazione con altri studi. La trasparenza diventa così una condizione strutturale dell’evidenza, non un adempimento accessorio.
Questo cambiamento ha anche una dimensione culturale. La disponibilità di strumenti come le mappe interattive delle sperimentazioni consente di individuare studi per area geografica o patologia e di contattare i centri coinvolti. Il trial clinico esce progressivamente da una dimensione opaca, riservata agli addetti ai lavori, e si configura come un processo osservabile e partecipativo, pur nel rispetto delle regole di riservatezza e protezione dei soggetti coinvolti.
Per sponsor e ricercatori, il nuovo quadro implica una responsabilità più ampia. La conformità regolatoria diventa condizione di esistenza dell’evidenza stessa: studi non allineati alle regole europee possono perdere rilevanza scientifica e, soprattutto, valore giuridico. Il trial clinico resta il fondamento dell’evidenza, ma è ormai inseparabile dal sistema di regole che ne garantisce la pubblicità, la tracciabilità e l’affidabilità nel tempo.
È su questa base che si apre una fase ulteriore della ricerca clinica, in cui la produzione dell’evidenza non dipende più soltanto dal controllo sperimentale, ma anche dalla qualità dei dati, dalla loro accessibilità e dalle regole che ne governano l’uso.
In che modo i dati del mondo reale stanno cambiando l’evidenza scientifica?
Accanto al trial clinico controllato, negli ultimi anni si è affermata una nuova dimensione di produzione dell’evidenza basata sui dati del mondo reale (real-world data, RWD) e sulle evidenze che ne derivano (real-world evidence, RWE). La linea di confine tra sperimentazione clinica e pratica quotidiana si è progressivamente assottigliata, grazie alla possibilità di raccogliere e analizzare informazioni provenienti da cartelle cliniche elettroniche, registri di patologia, database amministrativi e dispositivi digitali.
Questi dati non sostituiscono il trial clinico, ma ne ampliano il perimetro conoscitivo. Se la sperimentazione randomizzata opera in condizioni controllate, i RWD permettono di osservare l’efficacia e la sicurezza dei trattamenti nella pratica reale, al di fuori dei vincoli del protocollo. È per questo che le autorità regolatorie, a partire dall’Agenzia europea per i medicinali, riconoscono alle evidenze del mondo reale un ruolo crescente nel supportare lo sviluppo dei farmaci e nel valutare il profilo beneficio-rischio delle terapie.
In ambiti come l’oncologia e le malattie rare, dove l’arruolamento di ampie coorti randomizzate è spesso impraticabile, i RWD consentono di costruire bracci di controllo esterni e di confrontare i risultati di uno studio con coorti storiche tratte dai registri clinici. Questo approccio riduce il numero di pazienti esposti a placebo e rende possibile l’analisi di popolazioni difficili da studiare con i metodi tradizionali. L’evidenza che ne deriva è diversa da quella del trial classico, ma risponde a domande che il solo disegno sperimentale non è sempre in grado di affrontare.
L’integrazione tra dati sperimentali e dati osservazionali solleva però questioni metodologiche e giuridiche rilevanti. L’assenza di randomizzazione espone a bias, la qualità dei dataset può essere disomogenea e la comparabilità tra fonti non è garantita. È per questo che il legislatore europeo ha iniziato a intervenire, non per limitare l’uso dei RWD, ma per definirne le condizioni di liceità e affidabilità.
Con il nuovo Regolamento sullo Spazio europeo dei dati sanitari (EHDS), l’Unione europea distingue in modo chiaro tra uso primario dei dati, a fini di cura, e uso secondario per scopi di ricerca, innovazione e politica sanitaria. Per la prima volta, l’accesso ai dati sanitari per finalità scientifiche diventa un diritto regolato, soggetto a criteri di proporzionalità, trasparenza e sicurezza, e affidato a organismi nazionali incaricati di autorizzarne e monitorarne l’utilizzo. I cittadini, al tempo stesso, mantengono la possibilità di opporsi al riuso dei propri dati e di conoscerne le modalità di accesso.
Questo quadro normativo si completa con il Data Act, che interviene sulla governance dei dati generati da dispositivi connessi, software e piattaforme digitali. Il principio di accesso equo e non discriminatorio e l’obbligo di progettazione “by design” per la portabilità dei dati rafforzano la possibilità di utilizzare le informazioni raccolte nella pratica clinica anche a fini di ricerca, entro confini giuridici chiari. I dati diventano così una risorsa condivisibile, non più un patrimonio isolato e opaco.
Sul piano operativo, l’EMA ha avviato iniziative come la rete DARWIN EU, che collega fonti di dati sanitari a livello europeo per supportare decisioni regolatorie basate su evidenze del mondo reale. Anche a livello nazionale, autorità come l’Agenzia Italiana del Farmaco hanno progressivamente riconosciuto il valore dei RWD nei processi di valutazione e di rimborso, soprattutto per ridurre l’incertezza nelle decisioni post-autorizzative.
In questo scenario, l’evidenza scientifica non è più soltanto il risultato di un esperimento controllato, ma il prodotto di un sistema integrato, in cui trial clinici e dati del mondo reale si completano a vicenda. Il metodo sperimentale resta il riferimento, ma viene affiancato da strumenti che rendono la ricerca più rappresentativa della realtà clinica.
Questa evoluzione apre però una questione ulteriore: se l’evidenza nasce da quantità crescenti di dati eterogenei, come possono essere analizzati, interpretati e governati in modo affidabile? È su questo interrogativo che si innesta il ruolo delle tecnologie avanzate e, in particolare, dell’intelligenza artificiale.
In che modo l’intelligenza artificiale incide sul metodo scientifico della ricerca clinica?
L’ingresso dell’intelligenza artificiale nella ricerca biomedica ha aperto una nuova fase nella costruzione dell’evidenza scientifica. Sistemi capaci di analizzare grandi quantità di dati in tempi ridotti sono oggi impiegati in diverse fasi della sperimentazione clinica, dalla selezione dei pazienti al monitoraggio degli studi. Questa evoluzione, tuttavia, non ha messo in discussione il metodo scientifico: ne ha piuttosto richiesto una riformulazione regolata, capace di integrare l’innovazione tecnologica senza rinunciare ai criteri di controllo e verificabilità.
L’Unione europea ha affrontato questo passaggio con l’adozione del Regolamento (UE) 2024/1689 sull’intelligenza artificiale (AI Act), che per la prima volta inquadra giuridicamente l’uso degli algoritmi anche in ambito sanitario. In questo contesto, i sistemi di intelligenza artificiale utilizzati per diagnosi, monitoraggio o gestione clinica dei pazienti sono qualificati come ad alto rischio e sottoposti a requisiti stringenti. L’obiettivo non è limitare l’uso della tecnologia, ma governarne l’impatto sul processo decisionale clinico e scientifico.
Il legislatore europeo individua tre condizioni essenziali: supervisione umana, trasparenza dei meccanismi decisionali e tracciabilità delle operazioni svolte dall’algoritmo. Ciò significa che l’intelligenza artificiale può supportare la sperimentazione clinica solo se il suo funzionamento è documentato, validato e inserito all’interno di protocolli approvati. La responsabilità scientifica resta in capo ai ricercatori e agli sponsor: la macchina non sostituisce il giudizio umano, ma lo assiste entro limiti definiti.
Sul piano operativo, l’uso dell’intelligenza artificiale sta già incidendo su diversi aspetti della ricerca clinica. Algoritmi di apprendimento automatico consentono di migliorare l’identificazione dei soggetti eleggibili, ridurre i tempi di reclutamento e individuare precocemente segnali di inefficacia o di eventi avversi. Modelli avanzati, come i cosiddetti gemelli digitali del paziente, permettono di simulare scenari terapeutici e di ridurre la numerosità dei gruppi di controllo, con effetti rilevanti anche sotto il profilo etico.
Le autorità regolatorie, tra cui l’Agenzia europea per i medicinali e la Food and Drug Administration, hanno iniziato a riconoscere la validità di questi approcci, a condizione che siano supportati da evidenze solide e da sistemi di controllo indipendente. La letteratura scientifica più recente conferma il potenziale dell’intelligenza artificiale, ma mette in luce anche limiti legati alla qualità dei dati di addestramento e ai possibili bias. L’innovazione tecnologica, da sola, non garantisce un’evidenza migliore se non è accompagnata da regole chiare sulla produzione e sull’uso dei dati.
Da questo punto di vista, l’AI Act non opera in isolamento. Si inserisce in un quadro più ampio che comprende il Regolamento sullo Spazio europeo dei dati sanitari e il Data Act. I dataset utilizzati per addestrare o validare gli algoritmi devono essere legalmente accessibili, interoperabili e adeguatamente governati. L’intelligenza artificiale può apprendere solo da dati raccolti e condivisi secondo criteri di liceità, proporzionalità e trasparenza. In questo modo, il diritto interviene a tutela dell’integrità dell’evidenza, impedendo che strumenti sofisticati producano risultati non verificabili o privi di fondamento giuridico.
Nel nuovo contesto regolatorio, la trasparenza metodologica diventa parte integrante della buona pratica clinica. Ogni utilizzo dell’intelligenza artificiale deve essere tracciabile, documentato e sottoposto a controllo critico. Il principio di fondo è chiaro: la responsabilità non è delegabile. Anche quando l’analisi dei dati è affidata a sistemi avanzati, le decisioni che incidono sulla salute delle persone devono rimanere imputabili a soggetti umani identificabili.
L’intelligenza artificiale non segna quindi una rottura con il metodo scientifico, ma una sua estensione regolata. Se governata correttamente, può rafforzare l’affidabilità della ricerca clinica e contribuire a un’evidenza più tempestiva e rappresentativa. Resta però una condizione imprescindibile: che l’innovazione tecnologica continui a muoversi entro un perimetro giuridico chiaro, in cui scienza, diritto e responsabilità restano strettamente connessi.
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Data di pubblicazione: 24 Dicembre 2025
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