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Cosa distingue l’ispirazione lecita dalla copia illecita di un prodotto? Il caso esaminato dal Tribunale di Brescia (5 dicembre 2024) offre una preziosa chiave di lettura sui confini tra concorrenza sleale e libera concorrenza. Un ex rivenditore, dopo anni di collaborazione con il produttore originale, inizia a commercializzare un prodotto simile: è concorrenza sleale o legittima competizione? L’articolo analizza la decisione del Tribunale, spiegando quali elementi deve provare chi denuncia un’imitazione servile e quali strumenti legali possono prevenire la copia di un prodotto, evitando contenziosi costosi e dall’esito incerto. Scopri come tutelare il tuo business e quali strategie adottare per proteggere design, innovazione e competitività nel mercato.
Nel mercato competitivo, la linea tra ispirazione e copia illecita può essere sottile. L’art. 2598, n. 1, Codice Civile tutela le imprese dalla concorrenza sleale, vietando la riproduzione servile di un prodotto che possa indurre confusione nei consumatori. Tuttavia, non ogni somiglianza costituisce violazione: affinché l’imitazione servile sia illecita, la copia deve riguardare elementi estetici non funzionali e deve risultare idonea a creare un rischio di confusione nel pubblico.
Un caso recente, deciso dal Tribunale di Brescia con ordinanza del 5 dicembre 2024, ha fornito un’importante interpretazione su cosa debba dimostrare chi denuncia un’imitazione servile. L’elemento decisivo, secondo il Tribunale, è la presenza del fumus boni iuris, ossia un’apparente plausibilità della violazione. In sua assenza, il giudice non può concedere misure cautelari, indipendentemente dalla solidità della tesi giuridica.
Ma in che modo il Tribunale ha applicato questi principi? Esaminiamo il caso concreto che ha portato a questa decisione.
Il Tribunale di Brescia, con ordinanza del 5 dicembre 2024, ha esaminato un caso di concorrenza sleale per imitazione servile nel settore dei lucernari. La vicenda nasce dal rapporto commerciale tra due aziende: una produttrice e un suo ex rivenditore. Per facilitare la comprensione, useremo nomi fittizi:
L’azienda produttrice di Arioso aveva concesso la vendita dei suoi lucernari a un rivenditore per quattro anni. Terminato questo rapporto, l’ex rivenditore ha iniziato a produrre e commercializzare un proprio lucernario, Ventoso, caratterizzato da notevoli somiglianze con l’originale. Ritenendo che si trattasse di un caso di imitazione servile, il produttore ha richiesto al Tribunale di bloccare immediatamente la produzione e la vendita del nuovo modello, invocando la tutela dell’art. 2598, n. 1, c.c.
Tuttavia, il Tribunale ha respinto il ricorso, ritenendo che il ricorrente non avesse dimostrato in modo sufficiente l’esistenza di una violazione. Il giudice ha evidenziato che la somiglianza tra i prodotti non è sufficiente a configurare un’imitazione servile illecita:
“Le allegazioni del ricorso e le prove documentali offerte non consentono di ritenere dimostrati, nemmeno sommariamente, i fatti di concorrenza sleale lamentati in ricorso” (Trib. Brescia, ord. 5 dicembre 2024).
Uno degli aspetti fondamentali della decisione riguarda l’assenza del fumus boni iuris, ossia della plausibilità iniziale del diritto invocato. Secondo il Tribunale, il prodotto originale non risultava chiaramente dotato di elementi distintivi capaci di generare confusione nel pubblico, e il ricorrente non aveva fornito prove sufficienti a dimostrare che il modello Ventoso traesse indebito vantaggio dall’aspetto estetico di Arioso.
La decisione del giudice conferma un principio chiave nel diritto della concorrenza sleale: non basta dimostrare una somiglianza tra due prodotti, ma è necessario provare che il prodotto copiato avesse elementi non funzionali e distintivi, idonei a identificare un’azienda specifica.
Ma come può un’impresa dimostrare in giudizio l’esistenza di un’imitazione servile? Vediamolo più in dettaglio.
Dimostrare l’imitazione servile di un prodotto non è un’operazione semplice. Non basta evidenziare una somiglianza tra due prodotti: è necessario provare che il prodotto copiato possedesse caratteristiche estetiche non funzionali, che fosse originale e distintivo e che la sua riproduzione abbia generato un rischio di confusione per il pubblico.
Il Tribunale di Brescia, nell’ordinanza del 5 dicembre 2024, ha ribadito che affinché si configuri un’imitazione servile illecita ai sensi dell’art. 2598, n. 1, c.c., il ricorrente deve dimostrare che il prodotto imitato possedesse un design innovativo, caratterizzato da elementi distintivi non funzionali, e che la loro riproduzione abbia indotto il pubblico a ritenere che i due prodotti provenissero dalla stessa azienda.
A tal proposito, la Cassazione ha chiarito che:
“L’imitazione rilevante ai sensi dell’art. 2598 n. 1 c.c. non esige la riproduzione di qualsiasi forma del prodotto altrui, ma solo quella che cade sulle caratteristiche esteriori dotate di efficacia individualizzante e cioè idonee, in virtù della loro capacità distintiva, a ricollegare il prodotto ad una determinata impresa” (Cass. n. 948/2023).
La giurisprudenza ha quindi confermato che l’imitazione servile non tutela le caratteristiche tecniche e funzionali di un prodotto, ma solo quelle forme superflue che conferiscono un’identità visiva unica.
Per questo motivo, in giudizio l’impresa che denuncia un’imitazione servile deve provare tre aspetti fondamentali
Quest’ultimo elemento dipende molto dal contesto di acquisto. Per un bene di largo consumo, come un prodotto da supermercato, la soglia di attenzione del cliente è più bassa e il rischio di confusione è più alto. Al contrario, per beni più complessi e costosi, il consumatore tende a prestare maggiore attenzione al marchio e ai dettagli, riducendo la probabilità di errore.
Nel caso del lucernario Arioso, il Tribunale ha rigettato l’istanza cautelare proprio perché il ricorrente non ha fornito prove sufficienti a dimostrare questi tre elementi. L’onere della prova spetta sempre a chi denuncia l’imitazione, ed è suo compito dimostrare che il proprio prodotto possedeva caratteristiche distintive e originali.
Solo in un secondo momento spetterà al convenuto dimostrare il contrario, ad esempio provando che le forme contestate erano già diffuse nel mercato e non identificavano esclusivamente il prodotto dell’attore. Su questo punto, citando la Suprema Corte, il Tribunale di Brescia ha ribadito che Incombe sull’attore l’onere di provare la priorità nell’utilizzo di una certa forma e la capacità distintiva della stessa, restando, solo conseguentemente, in capo al convenuto:
“l’onere di provare la mancanza di novità del prodotto dell’attore o la perdita sopravvenuta della sua capacità distintiva” (Cass. n. 29522/2008).
Se l’impresa ricorrente non riesce a provare la novità e la capacità distintiva del proprio prodotto, il giudice rigetterà la richiesta di tutela, come avvenuto nel caso esaminato.
Ma oltre all’azione per concorrenza sleale, quali strumenti può utilizzare un’azienda per proteggere efficacemente i propri prodotti dalla copia? Lo vediamo nel prossimo capitolo.
In verità, quando l’imprenditore si vede costretto ad agire per concorrenza sleale, lo fa perché ha una scarsa consapevolezza del proprio valore o la matura solo dopo essere stato tributato con un “plagio”. Di norma, prodotti originali chiamerebbero registrazioni e brevetti. Se un’azienda crede realmente nella portata innovativa del proprio prodotto, sia essa estetica (design) o inventivo-funzionale (brevetto o modello di utilità), il primo passo logico sarebbe proteggerla ex ante, attraverso gli strumenti della proprietà industriale.
Chi sceglie di non brevettare, di non registrare un modello e di non investire nella tutela legale preventiva, perché dovrebbe aspettarsi che sia il giudice a proteggerlo ex post facendo leva sulla concorrenza sleale? La giurisprudenza, infatti, non ama sostituirsi all’inerzia dell’imprenditore nella difesa dei suoi asset immateriali.
Un’azione fondata sull’art. 2598 c.c. comporta inoltre un onere probatorio elevato, dovendo dimostrare che il prodotto copiato possedeva elementi estetici non funzionali, che fosse originale e distintivo e che la sua riproduzione abbia generato un rischio di confusione per il pubblico. La protezione più efficace, invece, è quella preventiva, attraverso strumenti giuridici che semplificano la difesa e rafforzano la posizione dell’azienda sul mercato, come brevetti, modelli di utilità e disegni e modelli industriali (approfondisci: “Brevetto, Modello di Utilità o Design Registrato?” di G. Regolo).
Un mezzo primario di tutela, infatti, è la registrazione di privative industriali. A differenza della tutela per concorrenza sleale, che richiede di dimostrare il rischio di confusione nel pubblico, la validità conferita da una privativa è presunta ex lege e attribuisce al titolare un diritto di esclusiva indipendentemente dall’effettivo sviamento della clientela.
Nel caso esaminato dal Tribunale di Brescia, a dire il vero, il ricorrente aveva registrato un modello ornamentale multiplo relativo al proprio lucernario. Tuttavia, poiché la difesa non aveva fondato il proprio ricorso sulla violazione di un diritto di privativa, si è trovata ad affrontare un onere probatorio più pesante.
Un altro strumento fondamentale, nella prassi, è la contrattualizzazione delle relazioni commerciali. Quando un’azienda affida la produzione o la distribuzione dei propri prodotti a terzi, può adottare contratti di distribuzione esclusiva e clausole di non concorrenza. Tali strumenti riducono il rischio che un ex partner commerciale, come accaduto nel caso in esame, utilizzi le informazioni acquisite per entrare in concorrenza diretta con il produttore originario.
L’assenza di un vincolo contrattuale esplicito, infatti, può rendere più difficile contrastare la condotta eticamente sleale dell’ex rivenditore. Del resto, in un libero mercato, la concorrenza deve essere tutelata a beneficio della collettività più che dell’interesse del singolo imprenditore. Nel caso del lucernario Arioso, il ricorrente ha lamentato che l’ex rivenditore si fosse avvalso delle informazioni tecniche e commerciali ricevute durante il precedente rapporto, ma senza poter dimostrare che si trattasse di informazioni riservate e protette da accordi di confidenzialità. Un contratto ben strutturato avrebbe potuto ribaltare l’esito della vertenza.
L’esigenza di tutela di un prodotto, quindi, non dovrebbe accendersi solo a copia avvenuta, avviando una causa per concorrenza sleale, ma dovrebbe basarsi su una strategia organica da mettere in atto a monte, che combini privative industriali, accordi contrattuali e monitoraggio attivo dei propri asset immateriali e della propria creatività d’impresa.
Gabriele Rossi