Russell Brands contro Mr. Beast: la proprietà industriale entra nel campo da basket

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Abstract

Recentemente la società Russell Brands ha citato in giudizio James Stephen Donaldson (meglio noto, per gli attivi sui social, come Mr. Beast, lo youtuber più seguito del pianeta) per un’asserita violazione di marchio, a seguito del lancio sul mercato di un pallone da basket, nuovo prodotto inserito nel catalogo del merchandising del giovane imprenditore social statunitense. Staremo a vedere chi la spunterà.

Con quale pallone si giocherà la partita? La decisione spetta al giudice

Russell Brands LLC, società statunitense operante nell’ambito dell’abbigliamento sportivo, ha citato in giudizio il famoso youtuber americano Mr. Beast per aver commercializzato un pallone da basket contenente il marchio “Beast” in grado, secondo la parte attrice, di creare confusione con il marchio “The Beast”, registrato presso l’USPTO (United States Patent and Trademark Office) in data 18/02/2003 (vd. Immagine sotto)

Russell Brands sostiene dunque che Mr. Beast sia responsabile per aver violato il diritto di privativa industriale della società, garantito dal deposito (e dalla conseguente registrazione) del marchio. In particolare, secondo quanto riportato da Sportico.com, lo youtuber avrebbe continuato a vendere prodotti contraffatti nonostante le due lettere di diffida ricevute dalla società nel maggio 2024 e nel febbraio 2025. Quest’ultima ha quindi deciso di agire giudizialmente per vedersi riconoscere il risarcimento del danno subito e per far cessare ogni ulteriore utilizzo e vendita del prodotto in questione: il pallone da basket di Mr. Beast, in effetti, seppur “attualmente non disponibile” è ancora oggi presente online.

L’atto di citazione è stato presentato il 12 agosto 2025. Non essendoci ancora una pronuncia nel merito, bisogna attendere le prossime settimane per assistere alla risposta dello youtuber e stabilire se questo match si giocherà dentro le aule del Western District Court del Kentucky oppure su un campo da basket all’aria aperta, magari trasmessa su Youtube (con buona pace degli oltre 423 milioni di seguaci di Mr. Beast).

Tutela del marchio e il c.d. consumer confusion test nel sistema americano

In attesa degli sviluppi sulla fattispecie in esame, è possibile svolgere qualche riflessione in materia di tutela dei marchi in virtù della legge statunitense e tracciare, a soli fini esemplificativi, un parallelismo con la disciplina europea e italiana, restando preliminarmente inteso che il sistema americano è di common law e le previsioni normative vengono interpretate e applicate dalla giurisprudenza nazionale con forza vincolante, secondo il principio dello stare decisis (l’ordinamento italiano, come ben si sa, è di civil law e ad avere vincolatività sono le previsioni normative emanate generalmente dal Parlamento, mentre al giudice spetta il potere di applicare le leggi).

Negli Stati Uniti, è il Trademark Act del 1946 (noto anche come Lanham Act) a disciplinare la materia.

Il titolare di un marchio di impresa può depositare una domanda presso l’USPTO ai sensi degli artt. 1051 ss., perseguendo la tutela federale dello stesso. In particolare, l’art. 1052 afferma che l’USPTO non può rifiutarsi di registrare un marchio che consenta di distinguere i prodotti del richiedente da quelli di altri, sempre che esso, fra le altre, (i) non consista o comprenda elementi immorali, ingannevoli o scandalosi, (ii) non consista o comprenda un marchio che assomiglia a un marchio registrato presso l’USPTO, o a un marchio o nome commerciale precedentemente utilizzato negli Stati Uniti da un altro soggetto, e (iii) non consista in un marchio meramente descrittivo o ingannevolmente fuorviante. Si tratta, sostanzialmente, dell’affermazione dei requisiti essenziali di registrabilità (novità, capacità distintiva, liceità) contenuti negli artt. 12, 13 e 14 del Codice di Proprietà Industriale italiano (D. Lgs. 30/2005).

Per tutelare il marchio in caso di violazioni, invece, l’art. 1125 lett. a) stabilisce che è responsabile il soggetto che (i) utilizzi, in relazione a beni o servizi, termini, denominazioni e simboli (o combinazioni di questi) che possano causare confusione, errore o inganno in merito al suo collegamento o associazione con un altro soggetto o con i suoi beni e servizi oppure che (ii) nella pubblicità o nella promozione commerciale, travisi la natura, le caratteristiche, le qualità o l’origine geografica dei propri beni, servizi o attività commerciali o di quelli di un altro soggetto. A ben vedere, la logica di fondo non cambia sul versante italiano (oltre che europeo): gli artt. 12 e 20 c.p.i. vietano l’uso di segni identici o simili per prodotti identici o affini, se da ciò derivi un rischio di confusione per il pubblico (omologamente, l’art. 9, par. 2, Reg. UE 2017/1001 riconosce al titolare del marchio dell’Unione europea il diritto di vietare l’uso non autorizzato di segni identici o simili, quando comporta il rischio di confusione “diretta” e/o di associazione).

Inoltre, non è escluso che il giudice consideri il marchio “The Beast” della società Russell Brand come “marchio famoso”, cioè generalmente riconosciuto come indicazione della provenienza dei prodotti o dei servizi del titolare del marchio sulla base di specifici criteri, fra cui la sua durata, la sua estensione territoriale ed il volume delle vendite. In tal caso, troverebbe applicazione l’art. 1125 lett. c) che prevede la tutela inibitoria del titolare di un marchio con queste caratteristiche nei confronti di chiunque ne utilizzi uno che possa causare diluizione per confusione o diluizione per denigrazione del marchio famoso, indipendentemente dalla presenza o dall’assenza di confusione effettiva o probabile (per approfondire: vd. Usare un marchio celere può costare caro: la Cassazione difende i marchi notori da diluizione e agganciamento – Canella Camaiora Studio Legale)

Delineato questo inquadramento, la questione posta dal caso Russell Brands contro Mr. Beast è in realtà un grande classico del diritto industriale: fino a che punto due marchi possono assomigliarsi senza entrare in conflitto? (ce ne siamo già occupati in Cosa si rischia quando due marchi si somigliano troppo? Il caso “American Eagle” – Canella Camaiora Studio Legale)

La legge – tanto negli Stati Uniti quanto in Europa – non si accontenta di valutare la identità letterale tra i segni. Il parametro di riferimento di cui il giudice (o l’esaminatore dell’ufficio competente) tiene conto è il rischio di confondibilità dovuto alla somiglianza fra i marchi.

Negli USA, i tribunali applicano i noti Sleekcraft factors (dal caso AMF v. Sleekcraft Boats, 9th Cir., 1979). In base ad essi, il giudice è chiamato a considerare i seguenti fattori, elencati nella sentenza menzionata:

  • la forza del marchio anteriore;
  • la vicinanza dei prodotti o servizi;
  • la somiglianza dei marchi;
  • le prove di confusione effettiva;
  • i canali di vendita utilizzati;
  • la tipologia di prodotti e il grado di attenzione che l’acquirente è tenuto a prestare (i.e.: l’impressione sul consumatore medio);
  • l’intenzione dell’imprenditore (posteriore) nella selezione del marchio;
  • probabilità di espansione delle linee di prodotti.

Se alla luce di questi fattori il consumatore medio, di fronte al marchio posteriormente depositato, è indotto a credere che il prodotto provenga dal titolare del marchio anteriore, allora il rischio di confusione sussiste.

Un approccio analogo si ritrova nella giurisprudenza europea e italiana:

  • Nella sentenza SABEL BV c. Puma AG della Corte di Giustizia UE (Sent. CGUE dell’11 novembre 1997, causa C-251/95), la Corte afferma che la valutazione del rischio di confusione debba essere “globale”, basata sull’impressione complessiva che i marchi generano;
  • Nella sentenza Lloyd Schuhfabrik Meyer & Co. GmbH contro Klijsen Handel BV della Corte di Giustizia UE (Sent. CGUE del 22 giugno 1999, causa C-342/97), la Corte stabilisce che il rischio vada valutato dal punto di vista del consumatore medio “che si ritiene sia normalmente informato e ragionevolmente attento e avveduto”, il quale non effettua analisi dettagliate ma si basa su un’impressione complessiva facendo affidamento “sull’immagine non perfetta che ne ha mantenuto nella memoria”.

Anche in Italia la giurisprudenza ha seguito queste orme, tanto che la nostra Suprema Corte ha sostenuto che “L’apprezzamento sulla confondibilità va compiuto dal giudice di merito accertando non soltanto l’identità o almeno la confondibilità dei due segni, ma anche l’identità e la confondibilità tra i prodotti, sulla base quanto meno della loro affinità; tali giudizi non possono essere considerati tra loro indipendenti, ma sono entrambi strumenti che consentono di accertare la cosiddetta “confondibilità tra imprese”” (Cass. Civ., Sez. I, Ord. 06/12/2019, n. 31938).

Pur essendo vero che ad avere l’ultima parola è sempre il giudice invocato (che, nel caso specifico, è ancora al di là dall’essere pronunciata), il caso in esame è già di per sé utile per sottolineare quanto sia importante, per un’impresa, sapersi differenziare dalla concorrenza sul mercato. Non è scontato che la differenza di una parola, di una lettera o di un dettaglio grafico possa bastare per “salvare” il marchio posteriore: ciò che conta non è la creatività profusa da un’impresa nell’adozione di un marchio, bensì la capacità di quel marchio di distinguersi, agli occhi del consumatore medio, da quelli utilizzati dalle imprese concorrenti nel corso dell’attività commerciale.

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Come si evita il rischio di confusione con marchi altrui?

Per evitare di inciampare nel rischio di confusione, è bene verificare preliminarmente la sussistenza di un potenziale rischio di confondibilità con i marchi di terzi concorrenti e seguire alcune semplici regole (per approfondire, vd. Le tre regole per scegliere un buon marchio – Canella Camaiora Studio Legale).

In generale, bisogna limitare il più possibile le analogie con altri marchi nella fase di ideazione e sviluppo del proprio segno distintivo, per cui quanto più esso avrà personalizzazioni creative in termini di font, colori, simboli, parole ed elementi grafici (se del caso) bizzarri, tanto meno è probabile che se ne rilevi uno identico o simile.

Inoltre, è sempre consigliato effettuare una ricerca di anteriorità presso i registri ufficiali, che permetta di intercettare eventuali marchi anteriori registrati distruttivi della novità e della capacità distintiva del proprio, ostacolandone la registrazione che, seppur non costituisca un obbligo, è certamente raccomandabile nell’ottica dell’opponibilità ai terzi.

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Data di pubblicazione: 26 Agosto 2025

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Joel Persico Brito

Laureato presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, Praticante avvocato appassionato di contenzioso e diritto dell’arbitrato.

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