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Un oceano di risposte, senza domande: come funziona la disinformazione

Pubblicato in: Proprietà Intellettuale
di Arlo Canella
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Viviamo in un’epoca in cui le informazioni circolano più velocemente delle domande che le generano. L’abbondanza di risposte – spesso errate – crea un effetto distorsivo sulla conoscenza collettiva, rendendo sempre più difficile distinguere la verità dalla disinformazione. Perché le persone credono alle risposte sbagliate? Bias cognitivi, effetto eco e il potere degli algoritmi rafforzano credenze errate, mentre interessi politici, economici e mediatici sfruttano il caos informativo a proprio vantaggio. Come possiamo difenderci? Sviluppare il pensiero critico, verificare le fonti e comprendere i meccanismi della manipolazione digitale sono strumenti essenziali per orientarsi in un mare di risposte spesso fuorvianti. Informarsi con consapevolezza non è solo una scelta personale, ma una responsabilità collettiva.

Cosa succede quando le risposte, numericamente, superano le domande?

Viviamo in un’epoca in cui le informazioni si diffondono più velocemente delle domande che le generano. Basta digitare qualsiasi cosa su un motore di ricerca o un social network per essere sommersi da una valanga di risposte. Incluse quelle AI-generated. E se la maggior parte di queste risposte fosse sbagliata? Il problema non è solo l’errore in sé, ma il fatto che la quantità di risposte errate può oscurare quelle corrette, rendendo difficile trovare la verità.

Un tempo, per avere una risposta si consultavano esperti, libri o fonti tradizionalmente affidabili. Oggi, invece, chiunque può fornire una risposta, anche senza alcuna competenza, e il valore di un’informazione spesso viene misurato dalla popolarità di chi la esprime, piuttosto che dalla validità della sua affermazione. Un problema antichissimo, che oggi viene solo amplificato dai new media. Il risultato? Le risposte sbagliate potrebbero moltiplicarsi più rapidamente delle domande giuste, creando un effetto distorsivo sulla conoscenza collettiva.

Questo fenomeno è particolarmente evidente nei campi dove le informazioni sono complesse o soggette a interpretazione, come la scienza, il diritto e l’economia. Se si pongono domande su argomenti come il cambiamento climatico, la salute o le normative fiscali, si ottiene un miscuglio di risposte giuste, sbagliate, incomplete o fuorvianti. E quando le risposte errate sono più numerose, anche chi è alla ricerca della verità – in buona fede – rischia di essere travolto da un mare di confusione.

Perché le persone credono alle risposte sbagliate?

Se ci sono più risposte errate che corrette, perché tante persone finiscono per crederci? La risposta sta in una combinazione di meccanismi psicologici ed effetti sociali, che influenzano il nostro modo di elaborare le informazioni.

Uno dei principali responsabili è il bias di conferma: tendiamo a cercare, interpretare e ricordare solo le informazioni che confermano le nostre idee preesistenti. Se una risposta sbagliata è in linea con ciò che già crediamo, la consideriamo più credibile, anche senza verificarla. Questo è il motivo per cui, ad esempio, le teorie del complotto si diffondono così facilmente: offrono risposte semplici e rassicuranti, che si adattano a convinzioni già radicate (ho parlato di bias anche qui: Come evitare i più comuni errori cognitivi nelle decisioni aziendali – Canella Camaiora).

A rafforzare il problema c’è l’effetto eco: le piattaforme digitali ci espongono ripetutamente alle stesse informazioni, spesso perché gli algoritmi privilegiano contenuti simili a quelli che abbiamo già visualizzato. Se leggiamo più volte una risposta sbagliata, il nostro cervello finisce per assimilarla come vera, anche senza prove concrete. Questo effetto è amplificato dai social network, dove le informazioni vengono condivise e commentate all’interno di cerchie ristrette, creando l’illusione che siano universalmente accettate (cfr. Echo chambers. Uno studio indaga le dinamiche di polarizzazione e segregazione sui diversi social – Università di Padova).

Infine, conta molto anche la velocità dell’informazione. Il nostro cervello è progettato per rispondere rapidamente alle domande e spesso scegliamo la prima risposta plausibile senza prenderci il tempo di verificarla. Se un’informazione è diffusa in modo chiaro e convincente, anche se falsa, ha più probabilità di essere accettata rispetto a una verità più complessa e articolata.

In sostanza, c’è il complicato e il troppo complicato (ne ho parlato anche qui: Semplificazione vs. banalizzazione nell’era dell’accelerazione digitale – Canella Camaiora).

Chi trae vantaggio dalla confusione?

Se la diffusione di risposte sbagliate fosse solo il risultato di errori innocenti, il problema sarebbe meno grave. In realtà, esistono soggetti che traggono vantaggio dal caos informativo e lo alimentano intenzionalmente per perseguire i propri interessi.

Uno degli esempi più evidenti è quello della disinformazione politica. La storia recente ha dimostrato come la diffusione di notizie false possa influenzare elezioni, polarizzare il dibattito pubblico e manipolare l’opinione collettiva (approfondisci: Dal plagio al rischio di manipolazione del pubblico: i “deep fake” – Canella Camaiora). Campagne di fake news vengono spesso orchestrate per distogliere l’attenzione dai veri problemi o per screditare avversari politici, sfruttando il fatto che molte persone condividono informazioni senza verificarle.

Anche il mondo del business e della pubblicità sfrutta questa dinamica. Aziende senza scrupoli possono diffondere informazioni ingannevoli sui loro prodotti o sui concorrenti, approfittando della facilità con cui le false credenze si radicano. Pensiamo, ad esempio, alle false promesse nel settore della salute, dove integratori miracolosi o cure alternative prive di basi scientifiche vengono venduti con strategie persuasive, facendo leva sulle emozioni e sulla paura (vedi anche: Criticità legali in tema di concorrenza e pubblicità online – Canella Camaiora).

Infine, ci sono i creatori di contenuti e le piattaforme digitali, che spesso traggono profitto dalla viralità delle informazioni, indipendentemente dalla loro accuratezza. Gli algoritmi dei social premiano l’engagement, favorendo contenuti sensazionalistici rispetto a quelli verificati. In questo modo, il sistema stesso incentiva la diffusione di risposte sbagliate, perché una bugia affascinante può generare più interazioni di una verità noiosa.

In un panorama in cui l’informazione è spesso guidata da interessi economici o politici, è fondamentale capire chi ha da guadagnare da certe narrazioni. Solo così possiamo iniziare a sviluppare un approccio più critico e consapevole alle informazioni che riceviamo.

Come difendersi dal sovraccarico di risposte sbagliate?

Di fronte a un mare di risposte errate, come possiamo riconoscere quelle giuste? La soluzione non è semplice, ma esistono strategie efficaci per difendersi dalla disinformazione e migliorare la qualità delle informazioni che consumiamo.

Il primo passo è riscoprire il c.d. pensiero critico.

Non bisogna accettare passivamente una risposta solo perché è la più diffusa o perché conferma le nostre convinzioni. È fondamentale chiedersi:

  1. Chi ha fornito questa informazione?
  2. Qual è la sua competenza?
  3. Ha interesse a manipolare il messaggio?

Un buon metodo è confrontare più fonti e verificare se le informazioni coincidono o se emergono contraddizioni sospette. Non tutte le fonti hanno lo stesso valore.

Le agenzie di stampa come ANSA, Reuters o Associated Press forniscono solitamente notizie neutrali e verificate, destinate ai media. Le testate giornalistiche, invece, interpretano e commentano queste notizie, spesso con un taglio editoriale.

Lo stesso fatto, ad esempio, può essere presentato in modi diversi: un’agenzia potrebbe riportare “L’inflazione è aumentata del 6% rispetto all’anno scorso”, mentre una testata potrebbe enfatizzare l’allarme (“Il carovita pesa sulle famiglie”) o minimizzarlo (“L’economia tiene nonostante l’inflazione”).

Per questo motivo, è sempre utile risalire alla fonte originale, soprattutto per dati economici, scientifici o normativi.

Un altro strumento fondamentale è la verifica delle fonti. Nell’era digitale, molti siti affidabili offrono strumenti di fact-checking, come:

Anche la semplice abitudine di controllare la data di pubblicazione e l’autore di un’informazione può aiutare a evitare di cadere in trappole. Inoltre, le fonti istituzionali e scientifiche, per quanto non infallibili, sono generalmente più affidabili di blog anonimi o post sui social media.

Infine, è essenziale riconoscere i meccanismi della disinformazione. L’effetto eco amplifica le false credenze, perché gli algoritmi dei social ci espongono sempre agli stessi contenuti, facendoci credere che una determinata versione della realtà sia l’unica possibile.

Le notizie costruite per provocare forti emozioni come paura, rabbia o indignazione sono spesso progettate per manipolare il pubblico. Se leggiamo un titolo o una dichiarazione che ci colpisce emotivamente, è utile fermarsi e analizzarla con più attenzione prima di condividerla o crederci ciecamente.

In un mondo dove le risposte sbagliate sono più numerose delle domande giuste, l’unico antidoto è la consapevolezza. Informarsi in modo critico non è solo una scelta personale, ma un atto di responsabilità collettiva: più persone adottano un approccio rigoroso alla ricerca della verità, meno spazio avranno le falsità per diffondersi.

© Canella Camaiora Sta. Tutti i diritti riservati.
Data di pubblicazione: 14 Febbraio 2025

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Avv. Arlo Cannela

Avvocato Arlo Canella

Managing Partner dello studio legale Canella Camaiora, iscritto all’Ordine degli Avvocati di Milano, appassionato di Branding, Comunicazione e Design.
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