Offendere il superiore può legittimare il licenziamento: cosa dice la Cassazione

Tempo di lettura: 7 minuti

Abstract

Cosa succede se un lavoratore insulta il proprio superiore? La Corte di Cassazione (n. 21103/2025 e n. 16925/2025) ha confermato che, in certi casi, anche un singolo episodio può legittimare il licenziamento per giusta causa. In questo articolo analizziamo due recenti pronunce del 2025, ricostruendo i parametri giuridici con cui viene valutata l’insubordinazione, tra libertà di critica e rottura del vincolo fiduciario.

Quando un diverbio fa perdere il posto: cosa dice la Cassazione

Non sempre serve alzare le mani per perdere il lavoro: a volte basta una parola di troppo. Due recenti ordinanze della Corte di Cassazione (n. 21103/2025 e n. 16925/2025) tornano a occuparsi di insubordinazione sul luogo di lavoro, confermando che anche un singolo episodio può giustificare il licenziamento per giusta causa, se la reazione del lavoratore mina irreparabilmente il rapporto fiduciario.

Nel primo caso, una lavoratrice aveva reagito a un ordine impartito dal proprio responsabile apostrofandolo con un termine volgare, «leccac***», pronunciato peraltro davanti a una collega. L’azienda aveva disposto il licenziamento per giusta causa. In primo grado, il Tribunale di Catania aveva ritenuto sproporzionata la misura, suggerendo una sanzione conservativa; ma in appello la decisione era stata ribaltata, valorizzando anche la presenza di un precedente disciplinare.

Nel secondo episodio, ancora più acceso, il dipendente aveva reagito a un richiamo con un «ma va’ a cag***», negando poi l’episodio nonostante la presenza di un testimone. Poche ore dopo, la tensione era salita: si era rifiutato di eseguire un ordine, avvicinandosi al volto del superiore con tono sfidante: «Se il documento non te lo do cosa fai? Mi picchi?».

In entrambi i casi, la Cassazione ha confermato la legittimità del licenziamento per giusta causa, riconoscendo che il comportamento aveva oltrepassato i limiti di un semplice diverbio. Secondo la Corte, la reazione del lavoratore era stata tale da rendere incompatibile la prosecuzione, anche solo temporanea, del rapporto di lavoro, compromettendo il necessario rispetto della gerarchia aziendale.

Quali insulti determinano il licenziamento

Non ogni diverbio con un superiore rappresenta una condotta sanzionabile con il licenziamento. Tuttavia, ci sono casi in cui la parola diventa atto di insubordinazione, e l’offesa, se grave e diretta al superiore, può costare il posto. A stabilirlo è una giurisprudenza ormai consolidata, che riconosce nella violazione del vincolo fiduciario uno degli elementi fondanti del recesso per giusta causa.

Secondo la Corte di Cassazione, rientrano nella nozione di insubordinazione non solo le espressioni apertamente offensive o denigratorie (Cass. n. 18247/2009; Cass. n. 7838/2005), ma anche i comportamenti provocatori, le minacce, i rifiuti immotivati di eseguire ordini legittimi, e in generale ogni condotta che rappresenti una sfida esplicita all’autorità aziendale.

Nei due casi recenti, le espressioni come «leccac***» e «ma va’ a cag***» non sono state considerate semplici espressioni colorite o scatti d’ira. Al contrario, sono state qualificate come “insubordinazione qualificata dall’ingiuria”, cioè come atti che — anche se isolati — ledono direttamente la struttura gerarchica dell’organizzazione e ne compromettono il funzionamento.

In questo contesto, la Suprema Corte ha inoltre precisato alcuni principi utili a orientare la valutazione della gravità della condotta:

  • non è richiesta la reiterazione di ingiurie o litigi prevista da alcuni contratti collettivi: può bastare anche un singolo episodio, se particolarmente grave;
  • l’offesa verbale non deve necessariamente sfociare in gesti violenti per legittimare il licenziamento;
  • la lunga durata del rapporto o eventuali disagi personali del lavoratore non escludono di per sé la responsabilità disciplinare;
  • un precedente disciplinare, pur non integrando tecnicamente una recidiva, può essere valutato come indice di tendenza negativa e rafforzare il giudizio di gravità;
  • il giudice può fondare la decisione anche su prove atipiche (come dichiarazioni scritte di terzi), se corroborate da altri elementi e sottoposte a vaglio critico.

Ad aggravare il quadro, secondo i giudici, concorrevano altri elementi: la presenza di testimoni, il rifiuto di eseguire compiti semplici (come la consegna di una fotocopia), e la modalità provocatoria con cui i lavoratori avevano agito. Si tratta di fattori che aumentano la portata lesiva della condotta, rendendo legittima — secondo la Corte — l’interruzione immediata del rapporto, anche in assenza di recidiva.

Dipendenti litigiosi o capi attaccabrighe?

Il licenziamento per giusta causa non è automatico, neppure quando un lavoratore offende il proprio superiore. La sanzione espulsiva può essere irrogata solo quando la condotta risulta, in concreto, fuori dai parametri dettati dal contesto, dal ruolo o dalle circostanze. È questo il principio guida ribadito dalla Corte di Cassazione: la gravità va valutata caso per caso, e non sulla base di automatismi astratti. Se si rompe la fiducia, comunque, il licenziamento è legittimo.

Per il datore di lavoro, ciò comporta un obbligo di valutazione concreta e proporzionata. L’art. 7 dello Statuto dei lavoratori impone che la contestazione disciplinare sia immediata, circostanziata e specifica, e occorre dare modo al lavoratore di difendersi (approfondisci: Come difendersi da una contestazione disciplinare?).

Inoltre, il contratto collettivo nazionale applicabile rappresenta un parametro fondamentale per verificare se la sanzione adottata sia coerente con la scala di gravità prevista dalla contrattazione nazionale. Allo stesso tempo, i giudici non sono vincolati in modo rigido alle previsioni del CCNL. Possono tenere conto di circostanze accessorie, come la presenza di precedenti disciplinari (si sono già verificati casi simili?), il contesto in cui si è verificato il fatto, il tono e il linguaggio utilizzato, o la reazione del lavoratore alla contestazione.

Anche una singola offesa, se pronunciata con intento denigratorio e in modo plateale, può giustificare il licenziamento, a condizione che sia dimostrata l’irrecuperabilità del rapporto fiduciario.

Resta una questione implicita ma centrale: e se fosse il superiore ad aver provocato il lavoratore? In questi casi, la valutazione del giudice deve tenere conto della dinamica complessiva del conflitto, senza attribuire automaticamente torto a chi si trova in posizione subordinata. La proporzionalità non riguarda solo il comportamento del dipendente, ma anche la correttezza dell’azione datoriale. È qui che spesso entra in gioco la strategia difensiva e la capacità dell’avvocato di orientare la prova, in caso di contenzioso.

Iscriviti alla newsletter dello studio legale Canella Camaiora.

Resta aggiornato su tutte le novità legali, webinar esclusivi, guide pratiche e molto altro.

Criticare il capo si può, offenderlo no

Uno degli snodi più delicati nelle controversie di lavoro riguarda il confine tra critica legittima e offesa sanzionabile. La Cassazione ha chiarito che il lavoratore ha diritto di manifestare dissenso, anche in modo fermo, purché nel rispetto della forma e del contesto, soprattutto quando la condotta richiesta dal datore al dipendente sia illecita (Doveri del dipendente: quando opporsi a direttive datoriali illecite. – Canella Camaiora).

Quando però il dissenso assume toni offensivi, volgari o provocatori, si esce dal perimetro della libertà di espressione e si entra in quello della violazione disciplinare.

Nel contesto delle due ordinanze del 2025, le offese rivolte ai superiori non avevano alcuna finalità critica o argomentativa: si trattava, secondo la Corte, di epiteti gratuiti, espressioni di sfida e atteggiamenti denigratori incompatibili con il rispetto dovuto alle gerarchie interne. Proprio la presenza di altri dipendenti o la ripetizione di atteggiamenti provocatori hanno rafforzato il giudizio di incompatibilità tra la condotta e la prosecuzione del rapporto di lavoro.

Un ulteriore profilo — spesso trascurato — riguarda la diffusione degli insulti all’esterno dell’azienda, in particolare tramite social network (Licenziamento per commenti online: il punto di vista della Cassazione). In questi casi, l’offesa può travalicare i confini del diritto del lavoro e assumere rilievo penale, integrando le fattispecie di ingiuria (oggi depenalizzata) o diffamazione. Non a caso, la stessa giurisprudenza ha sottolineato come il contesto pubblico e la platealità della comunicazione aggravino la portata lesiva dell’atto.

Va però ricordato che il potere disciplinare del datore di lavoro è tutt’altro che illimitato. Il licenziamento per giusta causa, anche in caso di offese o tensioni, deve sempre rispettare il principio di proporzionalità. In particolare:

  • la sanzione va graduata in base alla gravità della condotta, evitando decisioni arbitrarie o sproporzionate;
  • il licenziamento rappresenta l’extrema ratio, da applicare solo quando non residuano margini per la prosecuzione del rapporto;
  • la procedura disciplinare deve rispettare i principi di immediatezza e specificità dei fatti contestati, così come il diritto di difesa del lavoratore;
  • il CCNL applicabile offre un riferimento utile per individuare le sanzioni proporzionate, ma non vincola il giudice in senso assoluto;
  • il giudice può valutare le circostanze concrete, come pregressi disciplinari o l’effettiva compromissione del vincolo fiduciario, anche discostandosi dalle previsioni contrattuali.

In definitiva, non è il contenuto del dissenso a determinare la sanzione, ma il modo in cui viene espresso.

© Canella Camaiora S.t.A. S.r.l. - Tutti i diritti riservati.
Data di pubblicazione: 22 Settembre 2025

È consentita la riproduzione testuale dell’articolo, anche a fini commerciali, nei limiti del 15% della sua totalità a condizione che venga indicata chiaramente la fonte. In caso di riproduzione online, deve essere inserito un link all’articolo originale. La riproduzione o la parafrasi non autorizzata e senza indicazione della fonte sarà perseguita legalmente.

Debora Teruggia

Laureata presso l'Università degli Studi di Milano, praticante avvocato appassionato di Diritto del Lavoro e Diritto di Famiglia.

Leggi la bio
error: Content is protected !!