Dicitura obbligatoria o pratica commerciale? L’etichettatura tra trasparenza e responsabilità legale

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Abstract

Un filetto che non è un filetto. Un extravergine che non è extravergine. Un’etichetta che rassicura – e nel frattempo viola la legge. Nel settore alimentare, una singola parola può cambiare tutto: la percezione del prodotto, la conformità normativa, il rischio sanzionatorio. Termini come “ottenuto da”, “decongelato”, “ricostituito”, “affumicato” non sono scelte stilistiche. Sono obblighi giuridici vincolanti, previsti dal Regolamento sulle informazioni ai consumatori (UE) 1169/2011, da applicare ogni volta che la mancata indicazione possa indurre in errore l’acquirente sulla natura reale, lo stato fisico o il trattamento subito dall’alimento. In questo articolo analizziamo il ruolo delle diciture obbligatorie in etichetta, tra giurisprudenza, prassi e casi concreti. Perché la trasparenza non è un’opzione. È legge. E spesso, una parola stampata può valere quanto una sentenza.

Quando la parola fa la differenza: le diciture che cambiano la percezione (e la conformità)

Se acquistiamo un filetto di pesce, ci aspettiamo che sia esattamente questo: un taglio intero, naturale. Ma cosa succede se, dietro quella definizione, si cela in realtà un composto ristrutturato, magari ottenuto da pezzi ricomposti con enzimi o additivi? È qui che entra in gioco la dicitura obbligatoria “ottenuto da…”: una semplice espressione, ma capace di cambiare radicalmente la percezione del prodotto.

Le diciture supplementari come “ottenuto da”, “ricostituito”, “decongelato”, “in polvere” o “affumicato” non sono un vezzo normativo, ma un obbligo giuridico vincolante previsto dal Regolamento (UE) n. 1169/2011. In particolare, l’articolo 17 (denominazione dell’alimento), l’Allegato VI(denominazione degli alimenti e indicazioni specifiche che la accompagnano) e il CAPO V (informazioni volontarie sugli alimenti) impongono l’uso di queste diciture nei casi in cui l’omissione possa indurre in errore l’acquirente circa la natura reale del prodotto, il trattamento subito o lo stato fisico dell’alimento.

La finalità è chiara: garantire al consumatore una scelta consapevole, evitando che un alimento sembri “fresco” quando è invece stato congelato e successivamente decongelato, o che appaia integro quando, in realtà, è stato ricomposto. Queste informazioni devono essere riportate in modo chiaro, leggibile, immediatamente visibile e, ove richiesto, anche all’interno della denominazione legale dell’alimento.

L’etichettatura alimentare, in definitiva, non è un mero adempimento formale, ma uno strumento centrale di trasparenza commerciale. Le parole utilizzate sulla confezione non solo raccontano ciò che un alimento è, ma anche ciò che non è. Un’etichetta formulata correttamente protegge il consumatore e, allo stesso tempo, tutela l’operatore da contestazioni, sanzioni e danni reputazionali.

Quali diciture, se gestite in modo scorretto o omesse, possono esporre un’azienda a rischi concreti di non conformità, sanzioni e perdita di fiducia?

Nei prossimi capitoli, analizzeremo nel dettaglio le principali indicazioni obbligatorie previste dalla normativa, con esempi pratici e criteri di utilizzo, per aiutare le imprese del settore a scegliere con consapevolezza ogni parola stampata sul prodotto. Perché spesso, in etichetta, una sola parola può fare davvero la differenza.

“Decongelato”, “ottenuto da”, “ricostituito”, “extra vergine”: quando la trasparenza è obbligatoria

Nel febbraio 2025, l’azienda Carapelli è stata sanzionata per 230.000 euro dal Dipartimento di repressione frodi ICQRF del Ministero dell’agricoltura per la mancata indicazione della dicitura obbligatoria “ottenuto da oli raffinati” su alcune bottiglie di olio d’oliva (Il Fatto Alimentare). Secondo la normativa sulla commercializzazione dell’olio di oliva (Reg. delegato UE 2022/2104), infatti, quando un olio è ricavato da un mix che include oli raffinati, l’etichetta deve indicarlo chiaramente. Non si è trattato di una semplice svista formale: la denominazione errata o incompleta di un alimento può compromettere la trasparenza nei confronti del consumatore e integrare una violazione normativa rilevante, anche ai fini sanzionatori.

Sebbene il caso Carapelli riguardi una normativa settoriale specifica (olio d’oliva), è esemplare del principio generale sancito dal Regolamento (UE) n. 1169/2011: quando l’omissione di un’informazione può indurre in errore l’acquirente circa la natura reale, lo stato fisico o il trattamento subito da un alimento, la dicitura è obbligatoria.

Inoltre, l’articolo 17 e l’Allegato VI del medesimo regolamento stabiliscono anche che lo stato fisico di un alimento o il trattamento applicato (es. congelamento, ricostituzione, affumicatura) debbano essere indicati accanto alla denominazione legale dell’alimento se rilevanti ai fini della corretta comprensione.

Il caso più noto è quello degli alimenti venduti decongelati. Se un alimento è stato congelato prima della vendita e poi successivamente decongelato prima di essere messo sul mercato, deve riportare la dicitura “decongelato” accanto alla denominazione. La normativa, tuttavia, non impone un obbligo assoluto. Esistono deroghe specifiche previste dallo stesso Allegato VI, che permettono di omettere alcune diciture in casi tecnici ben delimitati. Ad esempio, per quanto riguarda l’indicazione “decongelato”, questa può essere omessa quando il congelamento rappresenta una fase tecnologicamente necessaria del processo di produzione (come nel caso delle verdure surgelate utilizzate in una zuppa pronta), quando l’ingrediente non è più presente nel prodotto finito, oppure quando lo scongelamento non compromette la qualità o la sicurezza dell’alimento. Lo stesso vale per prodotti che hanno subito trasformazioni tali da rendere irrilevante la menzione dello stato iniziale.

Al di fuori dei casi previsti dal regolamento, l’omissione costituisce violazione, anche se il prodotto sembra visivamente “fresco”.

Altre diciture obbligatorie si applicano quando l’ingrediente ha subito trasformazioni rilevanti rispetto alla sua forma originale. È il caso degli ingredienti ricostituiti da polveri o concentrati: latte in polvere, uova liofilizzate, succhi concentrati. In questi casi, il consumatore ha diritto a sapere che non si tratta di un prodotto “fresco”, ma di un ingrediente reidratato. La dicitura può essere riportata:

  • nella denominazione legale, es. “latte ricostituito”;
  • oppure accanto all’ingrediente nella lista, es. “succo d’arancia (ottenuto da concentrato)”.

Un’attenzione particolare va riservata alle diciture “ottenuto da…”, obbligatorie nei prodotti composti, ricomposti o ristrutturati. Un filetto di merluzzo ottenuto da surimi, ad esempio, deve indicare “ottenuto da prodotto a base di pesce ristrutturato”. Un prosciutto cotto formato da tagli diversi legati insieme deve essere presentato come “ottenuto da carne ricostituita”. Questo perché, altrimenti, il consumatore potrebbe legittimamente aspettarsi un prodotto integro e non ricomposto.

Il principio guida, ancora una volta, è quello dell’evitare ogni possibile inganno. Come chiarito anche dalle Linee guida del MIMIT del 2024, le diciture devono essere:

  • visibili, leggibili e comprensibili;
  • posizionate accanto alla denominazione quando richiesto;
  • formulate in modo chiaro, senza abbreviazioni o ambiguità.

Quando la trasparenza manca, le conseguenze non si fanno attendere. Oltre alla perdita di fiducia del consumatore, la normativa prevede sanzioni fino a 16.000 euro per prodotto non conforme, oltre ai possibili ritiri dal mercato e alle segnalazioni nel sistema di allerta rapido – RASFF, Rapid Alert System for Food and Feed. È quindi essenziale che le aziende alimentari conoscano nel dettaglio quando e come indicare correttamente lo stato e l’origine tecnica degli ingredienti. Perché un errore in etichetta può costare molto più di quanto sembri.

Anche la forma conta: ingredienti concentrati, ricostituiti o immersi in liquido di governo

La forma in cui un ingrediente è utilizzato non è un dettaglio secondario, ma un’informazione sostanziale, che il consumatore ha diritto di conoscere e che l’operatore ha il dovere di comunicare in modo chiaro, veritiero e completo. L’impiego di ingredienti trasformati – come concentrati, disidratati, ricostituiti o conservati in liquidi di copertura – è comune nell’industria alimentare, ma la loro natura reale non è sempre percepibile a prima vista.

Per prevenire equivoci e pratiche ingannevoli, il Regolamento n. 1169/2011 sulle informazioni ai consumatori impone obblighi specifici che riguardano non solo la quantità (QUID), ma anche la denominazione dell’alimento e la corretta descrizione degli ingredienti. Ciò che viene utilizzato, in quale forma e in quale proporzione deve essere reso evidente al consumatore secondo regole uniformi valide in tutta l’Unione.

Quando un ingrediente è impiegato in forma concentrata, liofilizzata o disidratata, la percentuale da indicare con il QUID deve riferirsi alla quantità originaria, cioè prima della diluizione o reidratazione. Questo principio è chiarito all’art. 22 del Regolamento FIC 1169/2011 e approfondito nella Comunicazione della Commissione 2017/C 393/05 (per approfondire si veda Oltre il QUID: come un’etichetta alimentare precisa protegge l’azienda e ispira fiducia).

Ad esempio, in una bevanda alla frutta non è sufficiente indicare “purea di albicocca”: se ottenuta da concentrato, l’etichetta dovrà specificare “purea di albicocca da concentrato (12%)” oppure “ottenuta da purea concentrata (pari al 12% nel prodotto finito)”. Analogamente, è corretto indicare “latte ricostituito da latte in polvere” o “succo d’arancia ottenuto da concentrato”.

Queste diciture sono fondamentali per evitare che l’ingrediente venga percepito come fresco o naturale quando non lo è. In più, se l’ingrediente rappresenta un elemento caratterizzante del prodotto (ad esempio nella denominazione), l’obbligo di QUID scatta a prescindere dalla sua forma originaria.

Un altro caso frequente riguarda gli alimenti conservati in liquido di governo, come olio, acqua, aceto o salamoia. Secondo l’articolo 22 del regolamento FIC, in questi casi il QUID deve essere riferito al peso sgocciolato, cioè al contenuto effettivo del prodotto senza liquido. Un’etichetta corretta, ad esempio, potrà indicare: “Olive nere (peso sgocciolato 200 g), acqua, sale, conservate in olio di sansa di oliva”.

L’Allegato IX del Regolamento sulle informazioni ai consumatori chiarisce ulteriormente i concetti di peso netto e peso sgocciolato, mentre l’Allegato VI impone che la denominazione dell’alimento sia accompagnata da indicazioni come “ricostituito”, “liofilizzato”, “concentrato” , “decongelato” o irradiato ogni volta che l’omissione possa indurre in errore l’acquirente.

Le Linee guida MIMIT del 2024 ribadiscono questi principi e invitano le aziende a garantire coerenza tra la dicitura utilizzata e la reale natura dell’ingrediente, fornendo anche esempi pratici utili per evitare contestazioni.

In un mercato sempre più attento alla trasparenza, alla qualità percepita e alla sostenibilità, la forma di un ingrediente conta quanto la sua origine. Per le imprese della filiera alimentare, rispettare questi obblighi non significa solo evitare sanzioni: vuol dire costruire fiducia, realizzare etichette chiare e credibili, e rafforzare la reputazione del proprio marchio.

Quando il nome non basta: denominazione legale, usuale e descrittiva tra obblighi e inganni

Non tutte le parole stampate in etichetta hanno lo stesso peso giuridico. Quando si indica il nome di un alimento, la normativa distingue tra denominazione legale, denominazione usuale e denominazione descrittiva, ciascuna con un diverso grado di vincolatività e precisione. Ma cosa accade se la denominazione scelta è ambigua o fuorviante? La risposta è chiara: si rischia di violare il principio di trasparenza, con conseguenze anche rilevanti per l’operatore.

La denominazione legale è quella prevista da specifiche disposizioni dell’Unione Europea per un determinato alimento. Un esempio è quello dell’olio di oliva, disciplinato dall’Allegato VII del Regolamento (UE) n. 1308/2013, come integrato dal Regolamento delegato (UE) 2022/2104. Solo gli oli conformi a determinati requisiti di qualità e purezza possono essere etichettati come “olio extravergine di oliva”, “olio di oliva vergine”, “olio di sansa di oliva”, ecc. L’uso di denominazioni diverse o non autorizzate non è una libera scelta commerciale: è una violazione normativa.

In mancanza di una denominazione legale, si può ricorrere a quella usuale, ovvero la più comunemente compresa dal consumatore medio nel Paese di commercializzazione. Se neppure questa è disponibile, è consentito l’uso di una denominazione descrittiva, che illustri in modo chiaro la natura dell’alimento, purché non induca in errore.

Tuttavia, la scelta del nome non può essere guidata unicamente da logiche di marketing. Lo ricorda una storica sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea (9 febbraio 1999, causa C-383/97, Van der Laan), relativa a un prodotto denominato “prosciutto” ma composto da un mix di carni bovine e suine. La Corte ha stabilito che tale denominazione era ingannevole, poiché nel linguaggio comune il termine “prosciutto” è associato esclusivamente alla carne suina. Sebbene anteriore al Regolamento (UE) 1169/2011, la pronuncia è perfettamente allineata al principio oggi espresso nell’Allegato VI, secondo cui la denominazione dell’alimento deve includere, se necessario, l’indicazione dello stato fisico o del trattamento subito, quando l’omissione possa trarre in inganno l’acquirente.

Il principio è ulteriormente rafforzato da altre pronunce fondamentali:

  • Nella sentenza Cassis de Dijon (C-120/78), la Corte ha stabilito che un prodotto legalmente commercializzato in uno Stato membro non può essere vietato in un altro solo perché non rispetta criteri tecnici locali (es. gradazione alcolica minima), se un’etichettatura chiara e corretta è sufficiente a tutelare il consumatore.
  • Nella sentenza Guimont (C-448/98), relativa all’uso della denominazione “emmenthal” per un formaggio privo di crosta, la Corte ha chiarito che una normativa nazionale che vieta l’uso di una denominazione generica in assenza di specifici requisiti formali può costituire una restrizione ingiustificata alla libera circolazione delle merci. Anche in questo caso, un’etichetta informativa e trasparente può essere sufficiente a evitare ogni rischio di confusione.

Tutti questi principi sono oggi recepiti nell’articolo 17 del Regolamento (UE) 1169/2011, che stabilisce che la denominazione dell’alimento deve essere quella prevista dalle normative europee applicabili o, in mancanza, una denominazione usuale o descrittiva. Questa scelta lessicale non è neutra: influisce direttamente sulla percezione del prodotto, sull’applicazione del QUID e sulla corretta indicazione di trattamenti o stati fisici.

Le parole in etichetta non sono mai semplici parole: sono strumenti giuridici vincolanti, in grado di determinare la liceità della commercializzazione e la responsabilità dell’operatore. Scegliere una denominazione corretta significa prevenire sanzioni, tutelare la trasparenza e rafforzare la fiducia del consumatore. Perché a volte è proprio una parola stampata a fare la differenza tra un’etichetta a norma e una sanzione da migliaia di euro.

Una parola sbagliata può costare cara

In materia di etichettatura alimentare, ogni parola pesa. Soprattutto quando si tratta di diciture obbligatorie, che non solo informano il consumatore, ma rappresentano un vero e proprio adempimento giuridico. Omettere espressioni come ottenuto da, ricostituito, decongelato, o usare denominazioni ambigue, significa esporsi a sanzioni, ritiri dal mercato, e danni reputazionali potenzialmente irreversibili.

Dopo aver approfondito il QUID e le principali diciture previste dalla normativa, è chiaro che il linguaggio dell’etichetta non può essere lasciato all’intuizione o alla consuetudine. Serve competenza, aggiornamento e un approccio strategico. Anche le denominazioni d’uso — legale, usuale o descrittiva — devono essere scelte con rigore, alla luce delle sentenze della Corte di Giustizia dell’UE (Van der Laan, Cassis de Dijon, Giumont), che dimostrano come l’apparenza formale di una parola non basti a tutelare l’operatore in caso di contestazioni.

Chi lavora nella filiera alimentare non può permettersi leggerezze. Perché l’etichetta non è solo un cartiglio. È un impegno giuridico, una leva reputazionale e, sempre più spesso, un elemento decisivo per la competitività di mercato.

© Canella Camaiora S.t.A. S.r.l. - Tutti i diritti riservati.
Data di pubblicazione: 6 Luglio 2025

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Carlo Bobbiesi

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