Abstract
È lecito inserire nelle offerte di lavoro requisiti estetici come la “bella presenza” o l’assenza di tatuaggi visibili? La questione non è solo culturale, ma giuridica: coinvolge libertà fondamentali, normativa antidiscriminazione e il delicato equilibrio tra libertà d’impresa e dignità della persona. In questo articolo esaminiamo come si è evoluta la giurisprudenza sul tema, quali limiti impone la legge e quando – secondo i giudici – un requisito estetico può davvero considerarsi legittimo.
Si può ancora richiedere la "bella presenza"?
In un tempo in cui il diritto del lavoro dialoga – talvolta litigiosamente – con l’evoluzione dei costumi e della sensibilità sociale, non necessariamente in ossequio al politically correct o alla woke culture, capita di imbattersi in offerte di lavoro che sembrano arrivate da un’altra epoca. “Richiesta bella presenza”. “No tatuaggi visibili”. “Look curato, stile sobrio”. E viene da chiedersi: si può davvero porre un limite fisico – estetico, persino identitario – alla possibilità di accedere a un’occupazione? Oppure si tratta di una forma di discriminazione inaccettabile?
Senza volerci qui addentrare nella disamina del caso – per certi versi ancor più spinoso – del datore di lavoro che voglia porre rimedio ex post all’evenienza in cui un dipendente, assunto senza tatuaggi visibili, si sia all’improvviso abbandonato all’originale idea di farsi tatuare in fronte – in bella vista – un ornitorinco (ove il platipo, comprensibilmente, non vi sembrasse sufficientemente hardcore per giustificare un licenziamento, sostituite pure il simpatico animaletto con un organo riproduttivo umano a vostra scelta), parliamo di un caso ben più lineare: per l’assunzione come commesso/a, il datore di lavoro – con tanto di policy interna scritta e già in vigore, e con apposita previsione contrattuale – richiede che le candidature siano vagliate al motto di “No tatuaggi, solo bella presenza”.
La questione, come spesso accade nel diritto, non ha una risposta immediata né univoca. Serve capire quando e in che misura una richiesta estetica possa essere considerata legittima, e quando invece rischia di sconfinare nella discriminazione.
Identità personale, libertà e diritti del lavoratore
In Italia, la normativa antidiscriminazione è piuttosto articolata e mira a proteggere i lavoratori da qualsiasi forma di discriminazione sul luogo di lavoro, sia essa diretta che indiretta.
A fondamento di tutto c’è la Costituzione, che all’articolo 3 sancisce il principio di uguaglianza: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”.
Questo principio è stato recepito e sviluppato anche all’interno dello Statuto dei Lavoratori (Legge n. 300/1970), che all’articolo 15 vieta ogni forma di discriminazione per motivi sindacali, politici, religiosi, razziali, linguistici, di nazionalità, di sesso, di disabilità, di età, di orientamento sessuale e di convinzioni personali.
Il tema è stato inoltre affrontato in sede europea, con due direttive fondamentali: la n. 2000/43/CE, che attua il principio di parità di trattamento tra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica, e la n. 2000/78/CE, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e condizioni di lavoro. In Italia, queste norme sono state recepite attraverso il D.Lgs. n. 216/2003, cui si affianca il D.Lgs. n. 198/2006, noto come Codice delle Pari Opportunità.
Ai sensi dell’articolo 2 del D.Lgs. n. 216/2003, sono vietate tutte le discriminazioni fondate su sesso, origine etnica, nazionalità, religione, convinzioni personali, età, disabilità e orientamento sessuale, sia nella forma diretta che in quella indiretta. Su questo punto, lo Studio Canella Camaiora si è già espresso in passato, affrontando il tema del divieto del velo e chiarendo il confine tra tutela della libertà individuale e interesse aziendale (per approfondire, si veda l’articolo “Simboli religiosi sul posto di lavoro. La pronuncia del 2022 della Corte di Giustizia” – Canella Camaiora).
Ma questo elenco di categorie protette è tassativo? Non del tutto. Col tempo, la giurisprudenza – tanto nazionale quanto comunitaria – ha progressivamente ampliato l’ambito delle tutele, includendo anche forme di discriminazione “atipiche”, ossia non espressamente previste dalla legge, qualora incidano su valori costituzionalmente garantiti, come la dignità della persona o la libertà di espressione dell’identità personale.
Ed è proprio a partire da questo allargamento interpretativo che si apre il vero interrogativo: un tatuaggio – o una scelta estetica – può costituire espressione di identità meritevole di tutela?
Quello di tatuarsi, è un vero diritto?
Prendiamo il caso dei tatuaggi. Possono essere semplicemente decorativi, certo, ma non di rado esprimono significati culturali, spirituali o biografici. In alcune situazioni, arrivano addirittura a rappresentare elementi di riconoscimento etnico o religioso. In questo contesto, escludere a priori un candidato tatuato potrebbe costituire una forma di discriminazione indiretta, soprattutto se il tatuaggio è parte integrante dell’identità culturale dell’individuo.
Anche quando i tatuaggi non veicolano significati profondi, ma sono frutto di una libera scelta estetica, la libertà di espressione rimane un diritto sempre più riconosciuto e tutelato. I datori di lavoro, dunque, faranno bene a evitare scivoloni comunicativi: dichiarare apertamente di non aver assunto qualcuno perché tatuato espone l’azienda a potenziali contestazioni di legittimità. E ancora: nel caso di lavoratori già assunti, solo la presenza di policy aziendali chiare, note e preesistenti può giustificare eventuali conseguenze disciplinari legate alla comparsa di nuovi tatuaggi.
Un precedente interessante arriva dalla sentenza n. 432/2020 del TAR Emilia-Romagna. I giudici hanno stabilito che, persino per un carabiniere, l’incisione di tatuaggi – per quanto di dimensioni importanti e potenzialmente deturpanti – non può automaticamente giustificare un licenziamento. Secondo la Corte, anche qualora un tatuaggio fosse ritenuto indice di “personalità abnorme” ai sensi del D.P.R. n. 90/2010 (Testo Unico delle disposizioni regolamentari in materia di ordinamento militare), la sanzione espulsiva risulterebbe comunque irragionevole e sproporzionata, non potendosi ravvisare, per il solo fatto del tatuaggio, il venir meno del rapporto fiduciario con l’Amministrazione.
Requisiti estetici: quando sono legittimi secondo i giudici?
L’espressione “bella presenza” è forse la più ambigua tra i requisiti ricorrenti negli annunci di lavoro. Cosa significa esattamente? Chi lo decide? E, soprattutto, può davvero trasformarsi in un requisito lavorativo legittimo?
L’articolo 10 del D.Lgs. 276/2003 stabilisce che non è consentito raccogliere informazioni personali non pertinenti alla mansione, “a meno che non si tratti di caratteristiche che incidono sulle modalità di svolgimento dell’attività lavorativa o che costituiscono un requisito essenziale e determinante ai fini dello svolgimento dell’attività lavorativa”.
È proprio su questa nozione – quella del requisito essenziale e determinante – che si misura la liceità di una richiesta estetica. In più occasioni, la Corte di Cassazione ha sottolineato l’importanza di distinguere tra requisiti estetici funzionali e criteri discriminatori.
Emblematica, in questo senso, è la vicenda legata all’altezza minima richiesta per il ruolo di capotreno. Fissare una soglia identica per uomini e donne è stato ritenuto discriminatorio, in quanto la media statistica penalizza le donne, senza che vi fosse una giustificazione oggettiva basata sul contenuto effettivo delle mansioni. È quanto affermato – tra le altre – dalla Cass. n. 3196 del 2019 e dalla Cass. n. 18522 del 2023.
In sintesi, un requisito estetico può essere legittimamente previsto solo quando è realmente funzionale alla prestazione richiesta. Ad esempio, una pelle liscia per lo spot di una crema, o un fisico tonico per pubblicizzare un’attività sportiva. Ma ogni volta che si scivola nel generico, nell’estetico fine a sé stesso o nello stereotipo, il rischio è quello di violare i principi di uguaglianza e non discriminazione, con conseguenze giuridiche ed economiche potenzialmente rilevanti per l’azienda.
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Data di pubblicazione: 4 Settembre 2025
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Daniele Camaiora
Senior Partner dello studio legale Canella Camaiora, iscritto all’Ordine degli Avvocati di Milano e Cassazionista, appassionato di Nuove Tecnologie, Cinema e Street Art.