GEMA vs. OpenAI: la prima sentenza europea su diritto d’autore e IA generativa

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Abstract

Dopo i precedenti USA (Bartz et al. v. Anthropic PBC, US District Court, N.D. California, No. C 24-05417 WHA; ne abbiamo parlato anche noi) e UK (Getty Images v. Stability AI), era inevitabile che la collisione tra intelligenza artificiale generativa e diritto d’autore si verificasse anche in Unione Europea.

Lo scontro, rivelatosi – almeno per il momento – sanguinoso per l’IA, ha avuto luogo in Germania, dove il Landgericht München I ha pronunciato la prima decisione europea in materia di copyright e IA generativa, condannando OpenAI per l’utilizzo non autorizzato di testi di canzoni nella fase di addestramento dei propri modelli.

Senza volerci qui sbilanciare sulla sua condivisibilità o meno, la pronuncia muove da un postulato tanto semplice quanto dirompente (per la linearità con cui viene esposto): affinché un’opera venga memorizzata, riprodotta o resa disponibile – anche da un algoritmo – serve l’autorizzazione dell’autore.

Il caso: 9 canzoni utilizzate – senza previa autorizzazione – per istruire ChatGPT

GEMA – una collecting society tedesca equiparabile alla nostra SIAE – rappresenta e amministra i diritti di oltre 95.000 autori ed editori musicali. In data 13 novembre 2024 ha deciso di portare la questione davanti al Landgericht München I, citando in giudizio OpenAI. L’addebito è netto: il colosso statunitense avrebbe utilizzato testi di canzoni protetti per addestrare modelli linguistici di grandi dimensioni (LLM), nel caso di specie quelli utilizzati da ChatGPT, senza munirsi delle necessarie licenze.

Nella prospettiva della società attrice, la questione è chiara: la prova dell’utilizzo massivo delle opere autorialmente protette nel dataset di training sarebbe riscontrabile direttamente negli output del chatbot, nei quali sarebbero riconoscibili – più o meno integralmente e in modo ripetuto – diversi brani del repertorio gestito (in particolare nove anche piuttosto famosi, quali ad esempio: “Mambo No. 5” di Lou Bega, “Forever Young” degli Alphaville, la intro “Daddy Cool” di Frank Farian, “Cheri Cheri Lady” dei Modern Talking).

Sempre per la parte attrice, la circostanza – se confermata – sarebbe rivelatrice di una condotta in aperto contrasto con la riserva d’uso formalmente dichiarata da GEMA per conto dei suoi associati e, dunque, integrerebbe una violazione significativa dei diritti d’autore.

Sfortunatamente per OpenAI e per i più libertari sostenitori dell’IA, la corte teutonica ha condiviso questo impianto argomentativo.

Memorizzazione, riproduzione, output: i cardini della decisione

La corte bavarese ha affermato che:

  • la presenza negli output di testi identici o quasi ai brani tutelati indica che copie delle opere devono necessariamente essere state in qualche modo riprodotte all’interno del modello;
  • non compete al giudice valutare come la memorizzazione avvenga tecnicamente: che si tratti di copie nei dataset, di caching o di “parametrizzazione” non cambia nulla;
  • ciò che conta è che i testi siano contenuti in modo riproducibile nel modello e che possano essere richiamati (volontariamente o meno) durante l’interazione con l’utente.

In parole povere: se c’è riproduzione riconoscibile di un testo protetto, quali che ne siano i mezzi, la stessa deve essere autorizzata. La tecnologia non può alterare questo assioma.

La responsabilità di OpenAI

La corte tedesca non fa sconti e attribuisce a OpenAI la responsabilità piena della violazione. È infatti l’azienda – e non gli utenti – a:

  • decidere l’architettura del modello,
  • scegliere i dati di addestramento “di base”,
  • controllare le modalità con cui questi vengono memorizzati e gestiti,
  • determinare la riproducibilità degli output.

Sulla scorta di queste premesse, la difesa della convenuta – che invocava la natura «puramente tecnica» dell’attività di training – è stata considerata irrilevante.

Il tribunale ha anche respinto l’eccezione secondo cui i testi sarebbero comunque «disponibili gratuitamente online», perché il fatto che lo siano (disponibili) non implica automaticamente che detta disponibilità sia lecita o che ne sia lecito il riutilizzo.

Perché non si applica l’eccezione del Text and Data Mining (TDM)

Il Landgericht München I ha anche chiarito che la disciplina europea sul TDM – centrale per gli sviluppatori di IA – non può rivelarsi salvifica per OpenAI per due ragioni:

  1. non si tratta solo di estrarre informazioni, ma di riprodurre opere intere.
  2. le eccezioni in favore del TDM cessano di operare quando l’autore ha espressamente riservato i propri diritti. E per molte delle opere gestite da GEMA era già stata azionata questa riserva.

Riassumendo: l’addestramento di un LLM non può essere automaticamente equiparato a un “fair use” per Text and Data Mining.

La “morale” della sentenza

A parere dei giudici tedeschi, la riproduzione negli output di un chatbot di porzioni riconoscibili di opere protette non può considerarsi un uso trasformativo.

E qui, ad avviso di chi scrive, torniamo a quella che è la “parola chiave” ogni qual volta ci si trovi a dover valutare la sussistenza di un plagio o comunque di uno sfruttamento illecito: RICONOSCIBILITÀ. Se nell’opera successiva sono riconoscibili elementi autoriali originali (nel senso tecnico-giuridico) dell’opera precedente, deve suonare un campanello d’allarme.

I giudici tedeschi hanno affermato proprio questo: poiché gli elementi originali dei testi (usati per l’addestramento) risultano riconoscibili, questo è sufficiente per integrare una messa a disposizione del pubblico non autorizzata.

OpenAI aveva provato a scaricare la responsabilità sugli utenti. Il tribunale ha respinto anche questa linea: la responsabilità resta del soggetto che progetta e controlla il modello.

«Se per costruire qualcosa servono dei componenti, li si acquista: non si usa la proprietà altrui.»: è questa la chiosa con cui la presidente della Sezione, Elke Schwager, ha voluto sintetizzare l’importante sentenza.

Le potenziali conseguenze della sentenza

Il tribunale – in breve – ha ordinato a OpenAI di: cessare la memorizzazione dei testi protetti; evitare la loro riproduzione negli output dei chatbot; fornire informazioni sui dataset, sulle modalità d’uso e sui ricavi generati. Un epilogo che ci interessa relativamente poco, anche perché l’appello da parte di OpenAI sembra scontato – ragione per cui della vicenda si parlerà ancora.

Ciò che sembra davvero interessante sono le potenziali conseguenze che ne deriverebbero nell’eventualità in cui quello in parola non restasse un caso isolato, ma diventasse il leading case di un condiviso orientamento comunitario.

Perché, se per utilizzare un’opera per addestrare un modello di IA serve un consenso, allora quel consenso ha un valore economico. E da qui si materializza la prospettiva, sempre più verosimile, di accordi di licenza su larga scala tra piattaforme tecnologiche e titolari dei diritti, con soluzioni negoziali finalizzate ad aprire (e “garantire”) nuove opportunità creative grazie all’IA, ma in modo tale da riconoscere compensi auspicabilmente adeguati a tutta la filiera.

La sentenza GEMA vs. OpenAI sembra voler porre un freno all’addestramento indiscriminato dell’IA, alla ricerca di un (giusto?) equilibrio tra creatività umana e rielaborazione algoritmica: un equilibrio in cui – anche facendosi scudo del progresso tecnologico – non si possa più ignorare la centralità del consenso e della remunerazione.

La partita è appena iniziata.

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Data di pubblicazione: 4 Dicembre 2025

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Avv. Daniele Camaiora

Daniele Camaiora

Senior Partner dello studio legale Canella Camaiora, iscritto all’Ordine degli Avvocati di Milano e Cassazionista, appassionato di Nuove Tecnologie, Cinema e Street Art.

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