Abstract
Molti imprenditori e professionisti si chiedono spesso se sia davvero necessario investire in un logo o se sia sufficiente la denominazione per contraddistinguere l’attività di impresa.
La risposta, oggi più che mai, è che il logo non è un ornamento: è parte integrante dell’identità del marchio e, a volte, come ha ricordato la Cassazione in una recente ordinanza (n. 14095/2025), può pesare perfino più del nome stesso.
Tutto comincia da un cane…
La vicenda giudiziaria che utilizzeremo per rispondere alla domanda prende avvio nel 2017. Harmont & Blaine, celebre per il suo bassotto stilizzato di profilo, si accorge che Thom Browne utilizza l’immagine del suo cane – anch’esso un bassotto – su alcuni capi di abbigliamento. Ritenendo che si trattasse di una violazione, Harmont & Blaine ricorreva al Tribunale di Napoli in sede cautelare, ottenendo un provvedimento di sequestro e un’inibitoria nei confronti delle società dello stilista americano.
A questo punto, è proprio lo stilista statunitense a citare in giudizio la casa di moda italiana davanti al Tribunale di Milano, chiedendo di accertare che l’utilizzo del bassotto non costituisse contraffazione né concorrenza sleale, e accusando la controparte di concorrenza sleale denigratoria (approfondisci Concorrenza sleale: quando si verifica e come difendersi – Canella Camaiora) per aver inviato diffide parziali e fuorvianti ai rivenditori di Thom Browne.
Harmont & Blaine dal canto suo sosteneva che i segni di Thom Browne costruissero una vera e propria contraffazione dei suoi marchi.
Il Tribunale di Milano, con sentenza n. 815/2022, accoglieva la tesi di Harmont & Blaine confermando la contraffazione e condannando Thom Browne al pagamento di circa 197.000 euro calcolati con il criterio della giusta royalty (approfondisci Risarcimento del danno: l’ignoranza della contraffazione può scusare? – Canella Camaiora).
Anche la Corte di Appello di Milano, adita da Thom Browne, ribadiva che il bassotto fosse l’elemento dominante del marchio Harmont & Blaine e che le differenze grafiche tra i due cani non fossero sufficienti a scongiurare il rischio di confusione per il consumatore.
Cosa può essere depositato come marchio?
Per capire la logica delle due decisioni occorre guardare alle norme che disciplinano la materia.
La tutela dei marchi in Italia è regolata dal Codice di Proprietà Industriale (D.Lgs. 30/2005) che all’art. 20 attribuisce al titolare del marchio registrato il diritto di vietare a terzi l’uso di segni identici o simili, quando ciò possa generare un rischio di confusione tra i consumatori.
Lo stesso principio vale a livello comunitario grazie al Regolamento sul marchio dell’Unione Europea 2017/1001, che offre una protezione uniforme all’interno dell’UE.
La legge riconosce diverse tipologie di marchio (approfondisci Quali sono i principali tipi di marchio? – Canella Camaiora), le più comuni sono:
- denominativo, quando si tratta di parole o lettere (per esempio, NIKE®);
- figurativo, quando il segno è solo un’immagine o un logo (per esempio, la mela morsicata della Apple®);
- misto, quando nome e immagine coesistono.
I marchi misti a loro volta si dividono in:
- marchi complessi che consistono nella combinazione di più elementi, ciascuno dei quali dotati di capacità distintiva;
- marchi di insieme che sono costituiti dalla combinazione di più elementi che, considerati singolarmente, non godono di capacità distintiva.
Ed è proprio nei marchi complessi che nasce la questione più delicata: quale degli elementi distintivi domina sull’altro? Quale può essere considerato l’elemento dominante?
La normativa non dà una risposta univoca. Spetta ai giudici, caso per caso, effettuare una valutazione volta a comprendere quale degli elementi del marchio complesso colpisce e rimane impresso nella mente del consumatore.
L’immagine è più distintiva della parola?
La vicenda Harmont & Blaine contro Thom Browne è approdata fino alla Corte di Cassazione, che nel maggio 2025 ha messo la parola fine con l’ordinanza n. 14095/2025. La Suprema Corte ha confermato le decisioni dei giudici di merito, sottolineando un aspetto essenziale: nel marchio Harmont & Blaine l’elemento davvero distintivo non è il nome, ma l’immagine del bassotto.
Secondo i giudici, quel cane stilizzato, sempre rappresentato di profilo e con proporzioni costanti, è diventato negli anni il vero cuore del marchio, ciò che lo rende immediatamente riconoscibile al pubblico. Non è un dettaglio ornamentale, ma l’elemento che cattura lo sguardo e che imprime nella memoria l’identità del brand. Al contrario, la denominazione ha un potere evocativo più debole, considerato che il bassotto ha acquisito una forza autonoma grazie alla lunga e costante esposizione sul mercato.
Proprio per questa la Suprema Corte ha stabilito che, anche Thom Browne si colloca in una fascia diversa della moda e adotta strategie commerciali non sovrapponibili, l’uso di un bassotto simile resta idoneo a generare confusione. Il consumatore medio, vedendo quel profilo, può credere che i prodotti provengano dalla stessa impresa o da imprese collegate.
Il principio è dunque chiaro: nei marchi complessi, composti da parole e immagini, non è affatto scontato che sia il nome a prevalere. La Cassazione ha stabilito che “l’elemento figurativo può, in particolare per la sua forma, le sue dimensioni, il suo colore o la sua collocazione nel segno, occupare una posizione equivalente a quella dell’elemento denominativo, dovendo, dunque, il giudice di esaminare le qualità intrinseche dell’elemento figurativo e quelle dell’elemento denominativo del marchio richiesto, nonché le loro rispettive posizioni, al fine di identificare la componente dominante”.
Non solo estetica: perché il logo può salvare (o rovinare) un brand
La vicenda del bassotto serve per comprendere che un logo non è un semplice ornamento grafico, ma può diventare il cuore stesso dell’identità aziendale.
Un marchio forte non si costruisce solo con le parole. L’immagine ha la capacità di imprimersi nella memoria del consumatore con immediatezza, spesso in modo più efficace del nome. Per questo, anche se un’impresa sceglie una denominazione differente, l’uso di un simbolo che richiama quello di un concorrente rischia comunque di generare confusione.
Le conseguenze sono rilevanti. Chi utilizza un logo simile a quello di un altro marchio può essere condannato non solo a interromperne l’uso, ma anche a risarcire i danni, che potranno essere quantificati in vario modo. In altre parole, imitare un logo non è un rischio solo teorico, in quanto può costare caro tanto in termini economici quanto reputazionali.
In un modo in cui le immagini e i simboli parlano più velocemente delle parole, il logo potrebbe costituire la vera voce dell’impresa. Non è un dettaglio estetico, ma un investimento strategico: serve sceglierlo con attenzione al fine di non incorrere nella contraffazione.
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Data di pubblicazione: 10 Settembre 2025
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Margherita Manca
Avvocato presso lo Studio Legale Canella Camaiora, iscritta all’Ordine degli Avvocati di Milano, si occupa di diritto industriale.