Abstract
La sentenza n. 1538/2025 della Corte d’Appello di Milano affronta il caso di un amministratore che, uscendo dalla società, fonda un’impresa concorrente. Al centro della vicenda un’e-mail con parole critiche (“persone sconosciute e senza esperienza”) e l’accusa di aver replicato processi, relazioni e asset della società originaria. L’articolo analizza i confini tra libera concorrenza e concorrenza sleale, mostrando come la Corte abbia minimizzato la portata delle condotte e sollevando un interrogativo attuale: in un libero mercato, davvero “vale tutto”?
Il caso: l’amministratore se ne va e crea una società concorrente
La Corte d’Appello di Milano, con sentenza n. 1538 del 31 maggio 2025, ha esaminato una complessa controversia tra due società italiane attive nei servizi ispettivi industriali. Il cuore del caso è rappresentato dalla decisione dell’ex amministratore di fondare una nuova società, operante nello stesso settore e in diretta concorrenza con quella di provenienza.
Alla società neo-costituita veniva contestato di aver agito in violazione dei principi di lealtà commerciale. In particolare, la società attrice segnalava l’uso di un’espressione ritenuta denigratoria (“persone sconosciute e senza esperienza”) apparsa in un’e-mail inviata a un cliente. Ma non solo: secondo l’attrice, la società convenuta avrebbe anche sviato clienti e dipendenti, utilizzato dati informatici e replicato aspetti organizzativi, professionisti di riferimento, lista clienti e schemi contrattuali della società preesistente.
Nel giudizio di primo grado, la società attrice sosteneva che alcuni ex dipendenti della convenuta, già parte del proprio organico, avessero violato gli obblighi di fedeltà previsti dagli articoli 2104 e 2105 c.c.. Inoltre, si denunciava una serie di condotte ritenute riconducibili alla concorrenza sleale, in violazione dell’art. 2598 c.c., tra cui:
- l’utilizzo del medesimo acronimo,
- la pubblicazione sul sito web di progetti curati dall’attrice,
- una comunicazione denigratoria,
- lo sviamento della clientela e il passaggio del personale.
Il Tribunale di Milano, con sentenza n. 10533/2023, aveva accolto solo in parte le domande attoree, riconoscendo una violazione dell’art. 2598 n. 2 c.c. per appropriazione di pregi. In particolare, la sezione del sito web della nuova società dedicata all’“esperienza di lavoro in team” riportava un numero significativo di progetti, sproporzionato rispetto alla sua giovane età operativa. Secondo il giudice, il contenuto del sito poteva indurre l’idea – non rispondente al vero – di una continuità imprenditoriale tra le due realtà. Su questa base, è stato disposto il divieto di utilizzare i nomi dei progetti effettivamente sviluppati dalla società attrice.
Per tutte le altre condotte denunciate – inclusi l’uso dell’acronimo, l’asserito sviamento di clienti e dipendenti, e l’addebito di condotte scorrette ai lavoratori fuoriusciti – le domande erano state respinte. La società attrice era stata pertanto condannata al pagamento delle spese giudiziali e accessorie, ad eccezione della porzione minima in cui le sue ragioni erano state riconosciute.
Da qui è nato il giudizio d’appello, promosso dalla stessa società attrice davanti alla Corte milanese. Poiché non erano state rinnovate le domande contro gli ex dipendenti e non era stato impugnato il rigetto sulla concorrenza confusoria, la Corte si è concentrata esclusivamente su due profili: l’asserita concorrenza denigratoria (art. 2598 n. 2 c.c.) e la concorrenza parassitaria (art. 2598 n. 3 c.c.), legata sia al passaggio di personale, sia alla struttura dell’organizzazione aziendale. In secondo grado, veniva inoltre richiesta la quantificazione del danno e la pubblicazione della sentenza.
“Persone sconosciute e senza esperienza”: è un’affermazione denigratoria?
Nel giudizio d’appello, la società attrice ha riproposto la questione della presunta denigrazione: al centro della contestazione, un’e-mail inviata dall’ex amministratore della società a un cliente. In quella comunicazione privata aveva motivato la sua uscita dal consiglio di amministrazione della vecchia società, affermando che la nuova gestione era in mano a “persone sconosciute e senza esperienza”.
Secondo l’appellante, tale espressione metteva in dubbio l’affidabilità della società, generando un pregiudizio reputazionale. Ma la Corte d’Appello ha confermato il rigetto della domanda.
In particolare, ha rilevato che la frase, sebbene critica, non possedeva il grado di lesività richiesto dall’art. 2598, n. 2 c.c., che sanziona la concorrenza sleale denigratoria. Non solo: la comunicazione era stata inviata con una mail a un solo destinatario, e quindi mancava il requisito della “effettiva diffusione tra una pluralità di persone”, necessario perché una critica possa essere considerata illecita. Infine, l’espressione utilizzata, per quanto poco elegante, non raggiungeva la soglia della diffamazione né appariva idonea a screditare realmente l’impresa concorrente.
A questo punto, però, il lettore si chiede: cosa significa davvero “discredito” ai fini dell’art. 2598 n. 2 c.c.? E quali sono i confini tra diffamazione e concorrenza sleale denigratoria?
Per discredito, nel linguaggio comune, si intende la perdita di fiducia o di credibilità. Nel campo del diritto della concorrenza, il termine assume un significato più tecnico: indica qualsiasi atto, anche astrattamente lecito, che, diffuso nel mercato, compromette la reputazione commerciale di un’impresa concorrente. La giurisprudenza ha chiarito che:
- le informazioni diffuse possono riguardare anche l’organizzazione, la gestione o lo stile imprenditoriale, non solo i prodotti o i servizi (Cass. 1446/2023);
- anche notizie vere possono integrare concorrenza sleale, se usate come pretesto per formulare giudizi offensivi o per diffondere invettive gratuite;
- la falsità dell’informazione, al contrario, fa presumere il carattere denigratorio (Cass. 22042/2016).
Ma attenzione: tutto questo presuppone comunque una diffusione effettiva presso il pubblico o almeno una pluralità di soggetti, perché la tutela garantita dall’art. 2598 n. 2 c.c. ha lo scopo di preservare l’integrità del confronto concorrenziale sul mercato, non di censurare ogni manifestazione critica tra imprenditori.
La diffamazione, disciplinata dall’art. 595 c.p., presenta alcuni tratti comuni: è anch’essa fondata sulla diffusione di affermazioni lesive della reputazione altrui e richiede che l’offesa sia comunicata a più persone. Ma si distingue sotto vari profili:
- è un reato comune, applicabile a chiunque, e non richiede un rapporto di concorrenza tra autore e destinatario;
- tutela l’onore e la reputazione della persona (fisica o giuridica), a prescindere dalla dimensione commerciale;
- comporta sanzioni penali (reclusione o multa), mentre la concorrenza sleale denigratoria dà luogo a tutela civile e inibitoria (artt. 2599–2600 c.c.).
Le due fattispecie si toccano, ma non si sovrappongono. Si muovono su piani normativi differenti, con finalità distinte: da un lato la libertà di concorrenza (artt. 2598 c.c. e 41 Cost.), dall’altro la libertà di espressione (art. 21 Cost.).
È interessante notare che, se anche non si raggiunge la soglia del discredito ex art. 2598 n. 2, una condotta potrebbe comunque risultare sleale ai sensi del n. 3 dello stesso articolo, ossia scorretta e dannosa. Vediamo come e quando.
Quando la "sovrapponibilità" aziendale diventa scorretta?
Tra le condotte denunciate dalla società attrice figurava anche l’accusa di concorrenza sleale parassitaria ai sensi dell’art. 2598, n. 3 c.c.. Secondo l’attrice, la nuova società, costituita dall’ex amministratore e popolata da ex dipendenti, si sarebbe avvalsa di un patrimonio aziendale “replicato”: l’utilizzo di informazioni contenute nel pc del dirigente uscente, l’adozione dello stesso statuto sociale, il ricorso allo stesso commercialista, la ripresa della lista clienti e ispettori, oltre allo spostamento mirato di personale chiave.
La Corte d’Appello ha però rigettato integralmente la doglianza, confermando la valutazione del Tribunale. Nessuno degli elementi indicati è stato ritenuto sufficiente, neppure cumulativamente, a configurare un comportamento scorretto. Secondo i giudici, non è stato dimostrato il trasferimento di un complesso strutturato di dati aziendali tale da superare l’esperienza e la memoria del singolo, come richiesto dalla giurisprudenza di legittimità per configurare un comportamento parassitario. In assenza di un’organizzazione formalizzata di know-how o informazioni riservate, la sola conoscenza maturata durante l’esperienza professionale non basta.
Va ricordato che il nostro ordinamento offre più strumenti per tutelare il patrimonio informativo delle imprese. Quando si tratta di segreti industriali, la norma di riferimento è l’art. 623 c.p., che sanziona la rivelazione o l’uso indebito di informazioni riservate acquisite per ragioni professionali. Ma anche in ambito civilistico, gli artt. 98 e 99 c.p.i. tutelano informazioni aziendali non accessibili, dotate di valore economico e protette da misure adeguate di riservatezza (per approfondire, v. Il caso del dipendente infedele che sottrae informazioni aziendali riservate – Studio Legale Canella Camaiora).
Nel caso esaminato, però, la Corte ha ritenuto che non vi fossero gli estremi né della riservatezza, né della sistematicità imitativa. L’adozione di uno statuto simile, ha spiegato, è lecita e frequente tra società con lo stesso oggetto sociale; il ricorso agli stessi consulenti e fornitori, altrettanto. Mancando prove aggiuntive, nessuno di questi aspetti è stato interpretato come espressione di un piano imitativo illecito.
Tutte le ulteriori accuse relative allo storno di personale, all’utilizzo di dati o modelli organizzativi e alla creazione di una “copia” dell’impresa originaria sono quindi cadute, per mancanza di prova o per intervenuta preclusione del giudicato interno.
Ma a questo punto, una domanda rimane aperta: davvero una e-mail inviata a un solo cliente, seppur contenente giudizi critici sulla nuova gestione, non può mai integrare denigrazione? E davvero la replica sistematica di assetti, ruoli, relazioni e procedure da parte di chi esce da una società per fondarne una concorrente non viola in alcun modo le regole della correttezza professionale?
La Corte ha offerto una risposta chiara, ma non è detto che sia l’ultima. Le coordinate giurisprudenziali della concorrenza parassitaria e della denigrazione, come elaborate dalla Suprema Corte, sembrano ancora una volta in attesa di trovare piena applicazione nella prassi dei giudici di merito. Forse il percorso di questo caso non si è ancora concluso.
Eppure, qualcosa non torna
Leggendo la sentenza della Corte d’Appello di Milano n. 1538/2025, resta l’impressione che qualcosa non sia stato considerato fino in fondo. Alcune condotte – su tutte, l’e-mail inviata dall’ex amministratore a un cliente, nella quale si prendevano le distanze dalla nuova gestione definita “di persone sconosciute e senza esperienza” – sono state archiviate come non illecite, poiché non ritenute idonee a integrare la fattispecie della concorrenza sleale denigratoria.
La motivazione è che la comunicazione era rivolta a un solo destinatario e che il tono, pur critico, non raggiungeva la soglia del discredito. Da ciò è derivato il rigetto della domanda fondata sull’art. 2598, n. 2 c.c., il quale prevede che «compie atti di concorrenza sleale chiunque […] diffonde notizie e apprezzamenti sui prodotti e sull’attività di un concorrente, idonei a determinarne il discredito».
Diffonde. Voce del verbo diffondere. Qui bisogna interpretare correttamente questo verbo e la ratio della norma. La diffusione implica una comunicazione a molti. Ma è davvero questo il parametro da considerare?
Nella sua motivazione, la Corte da una parte ha detto che la valutazione non era così negativa, dall’altra ha ritenuto assente la pluralità necessaria… In fondo, anche un messaggio isolato, se ben mirato, può dare il via a un’erosione reputazionale irreversibile. È il cosiddetto “la” iniziale, quello che non fa troppo rumore, ma che basta a instillare un dubbio in chi legge.
E lo sappiamo: “la calunnia è un venticello”, diceva Don Basilio. Anche la concorrenza sleale, a volte, comincia così.
Ma il punto più delicato è un altro: la Corte ha evocato il “parassitismo” come categoria di concorrenza sleale, ma lo ha fatto in modo improprio. Qui, più che di parassitismo in senso stretto, si trattava di una appropriazione cumulativa di informazioni e asset riservati, una sorta di appropriazione apparentemente sensazionale del patrimonio dell’impresa concorrente, resa ancora più grave dalla contestuale denigrazione.
Non singoli episodi, ma un disegno unitario, fatto di approfittamento sistematico e replicazione di processi aziendali, reso possibile dal ruolo pregresso. Anche quando non si configura la violazione dei segreti ex artt. 98 e 99 c.p.i. (tutela dei segreti commerciali), resta da considerare la pluralità delle condotte nel loro insieme, alla luce dell’impostazione dell’art. 2598 c.c.. L’effetto finale, invece, è che la scorrettezza professionale è stata sezionata in micro-episodi, minimizzandone l’impatto complessivo. Forse che la scorrettezza non si valuta nell’insieme? Forse che libera concorrenza voglia dire “vale tutto”?
E qui sta, secondo noi, la vera mancanza della sentenza: non aver considerato che una condotta cumulativa, che unisce la sottrazione di know-how alla svalutazione dell’avviamento aziendale costruito con investimenti significativi, e che al contempo scredita l’impresa precedente, sia ben più grave della singola denigrazione. Screditare ciò che si lascia, mentre si utilizza ciò che si è sottratto, pare francamente troppo facile.
Per queste ragioni, questo approccio pilatesco della Corte non ci sembra condivisibile. Riteniamo che la Suprema Corte dovrebbe essere interpellata per raddrizzare la china che la disciplina della concorrenza sta prendendo nelle Corti di merito. E in quel contesto sarà inevitabile chiedersi se davvero l’ordinamento possa tollerare che un amministratore uscente, appropriandosi del patrimonio informativo e relazionale dell’impresa e denigrandola al contempo, possa farlo senza incontrare limiti giuridici – neppure quelli, minimi ma essenziali, della correttezza professionale sanciti dall’art. 2598 c.c..
© Canella Camaiora S.t.A. S.r.l. - Tutti i diritti riservati.
Data di pubblicazione: 3 Settembre 2025
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Joel Persico Brito
Laureato presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, Praticante avvocato appassionato di contenzioso e diritto dell’arbitrato.