Lagging e leading KPI: perché i soli indicatori storici non bastano più

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Abstract

Nel precedente articolo abbiamo visto cosa sono davvero i KPI e perché contano ancora: strumenti che, se ben scelti, permettono di tradurre la strategia in numeri concreti e di creare un linguaggio comune all’interno dell’impresa. Ma chi vive la realtà aziendale sa che spesso non è sufficiente.

Il problema dei KPI storici è che quando il dato negativo emerge, il danno è già avvenuto. Questo accade perché si tratta per lo più di lagging KPI, o indicatori storici, letteralmente indicatori “in ritardo”: ci raccontano con precisione ciò che è già accaduto, ma non ci avvertono mentre il problema si sta formando. E, mentre i report lo certificano, altri effetti collaterali sono già in corso: clienti che si allontanano, margini erosi, collaboratori disillusi. Quando i numeri ci consegnano la fotografia di una crisi, l’organizzazione è spesso già in ritardo per intervenire.

È in questi casi che i KPI tradizionali mostrano i loro limiti. Non perché inutili, ma perché parziali. Restano indicatori indispensabili, ma arrivano quasi sempre dopo gli eventi, fotografando un passato che non sempre aiuta a orientare il futuro.

Perché servono metriche più dinamiche

Nati come strumenti di controllo, i KPI hanno avuto per lungo tempo la funzione di misurare i risultati rispetto a obiettivi prefissati. Ma in uno scenario VUCA (volatile, incerto, complesso e ambiguo) questa logica rischia di ridursi a un inseguimento del breve termine.

Concentrarsi solo sui numeri di consuntivo significa misurare il passo già compiuto, senza cogliere i segnali di ciò che sta per accadere. È un approccio che può portare a decisioni tardive o distorte, e che tende a dare importanza solo a ciò che è facilmente misurabile, trascurando elementi strategici come motivazione interna, qualità percepita, fedeltà dei clienti.

Diversi analisti hanno sottolineato questo rischio. Un articolo apparso su Forbes già alcuni anni fa segnalava come l’affidarsi a metriche tradizionali possa spingere le imprese a ottimizzare il breve termine perdendo di vista la strategia di lungo periodo.

Come abbiamo visto con il framework Cynefin, nei contesti complessi non esistono risposte lineari. Serve piuttosto la capacità di leggere la realtà attraverso più lenti, combinando analisi quantitative (numeri, dati misurabili) e qualitative (esperienze, percezioni, segnali di contesto). Solo così si evita di ridurre la gestione a un mero “gioco dei numeri”.

Lagging vs leading KPI e il ruolo dei segnali deboli

Oltre agli indicatori storici, si stanno affermando i leading KPI, o indicatori anticipatori, in grado di segnalare in anticipo i cambiamenti. Un calo della soddisfazione dei clienti, un peggioramento della qualità percepita o una flessione dell’engagement possono prefigurare una crisi prima che diventi visibile.

Anche fenomeni più sottili come un aumento delle ricerche verso la concorrenza o un allungamento dei tempi medi di risposta del customer care possono essere utili segnali predittivi. I leading KPI non certificano il passato ma aiutano a prevedere il futuro. Individuarli richiede sperimentazione, ascolto diffuso e visione sistemica, ma è proprio qui che si gioca la loro forza.

La storia recente offre esempi chiari. Kodak, pur con KPI finanziari positivi, non seppe leggere i segnali deboli della rivoluzione digitale e perse l’opportunità di guidare il cambiamento. Salesforce, invece, ha costruito parte del suo vantaggio competitivo proprio sulla capacità di affiancare ai KPI storici indicatori più dinamici, come il tasso di adozione della piattaforma o l’engagement dei clienti, trasformandoli in leve di crescita sostenibile.

Accanto a questi, i segnali deboli — piccoli indizi che anticipano cambiamenti nascosti — diventano indicatori adattivi: richieste ricorrenti al customer care, cali di entusiasmo nei team o rallentamenti decisionali. Se interpretati in chiave strategica, arricchiscono la capacità di adattamento organizzativo.

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Il ritmo giusto della misurazione dei KPI

Un KPI può essere corretto nella definizione, ma inutile se rilevato con la frequenza sbagliata. Gli indicatori operativi, come i tempi medi di evasione di un ordine o il livello di stock disponibile, vanno osservati con regolarità ravvicinata per cogliere subito i trend emergenti. Quelli strategici, come redditività e quota di mercato, hanno invece senso su orizzonti più lunghi, mensili o trimestrali, in linea con i cicli di pianificazione.

A questo si aggiunge una considerazione spesso trascurata: misurare ha un costo. Raccogliere, elaborare e analizzare i dati richiede risorse. Troppa frequenza genera lavoro e spese inutili, poca frequenza riduce la tempestività. Serve quindi un equilibrio dinamico: misurare ciò che serve, al momento giusto, al livello giusto di dettaglio, senza appesantire l’impresa.

Nel prossimo articolo vedremo quali KPI le aziende utilizzano davvero e quali, invece, mancano all’appello, aprendo la strada al tema della gestione adattiva e all’uso dell’intelligenza relazionale nei sistemi di controllo.

© Canella Camaiora S.t.A. S.r.l. - Tutti i diritti riservati.
Data di pubblicazione: 1 Settembre 2025

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Valentina Panizza

“Le migliori opportunità hanno il brutto vizio di farsi avanti travestite da problemi, tutto sta nell’imparare a riconoscerle”

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