Tatuaggi e Diritto d’Autore: riflessioni su un tema ancora in evoluzione

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Abstract

È curioso – e più che curioso, affascinante – che un fenomeno millenario come il tatuaggio, sia da qualche anno al centro di riflessioni nuove, anzi nuovissime, legate al mondo del Diritto d’Autore (noi di Canella Camaiora ne avevamo parlato già nel 2019). Un’arte corporea antichissima, un tempo rituale, poi trasgressione, oggi ampiamente diffusa in ogni ambito sociale, sembra talvolta suggerirci una domanda quasi impertinente, ma non necessariamente banale: a chi appartiene davvero un tatuaggio?

Non è una provocazione da talk show: se è vero che, secondo le stime più recenti, nei soli paesi occidentali quasi il 50% delle persone porta sul corpo almeno un tatuaggio, è inevitabile che – statisticamente parlando – si moltiplichino anche i casi in cui il soggetto tatuato, l’autore del tatuaggio ed eventuali terzi a qualsivoglia titolo interessati non si trovino più tanto d’accordo su diritti, usi, e soprattutto abusi.

Il tatuaggio è “mio”? Forse… solo in parte

Nell’immaginario collettivo (e, per la verità, anche nella convinzione di non pochi giuristi “generalisti”) si dà spesso per scontato che, una volta inciso sulla pelle, un disegno diventi automaticamente “proprietà” del suo portatore. Peccato che la questione non sia così lineare, e – a volerla dire tutta – neppure così intuitiva.Il nodo fondamentale, giuridicamente parlando, sta tutto in una distinzione tanto semplice quanto insidiosa: la distinzione tra il supporto e il contenuto. È pacifico che il soggetto tatuato disponga, per ovvie e ineluttabili ragioni, della piena disponibilità del proprio corpo, ma ciò non implica affatto che disponga anche dei diritti di sfruttamento economico o artistico dell’opera che quel corpo ospita.

Il punto è sempre lo stesso: se il disegno del tatuaggio è originale, creativo, frutto della libera espressione dell’ingegno di un autore, allora – senza se e senza ma – si tratterà di un’opera dell’arte grafica e a quell’autore spetterà la titolarità del Diritto d’Autore, ai sensi della Legge 22 aprile 1941, n. 633. La pelle, sì, è del committente. Ma il Diritto d’Autore (copyright incluso, in assenza di patti contrari), resta al tatuatore.

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Quando il tatuaggio non è un’opera

A scanso di equivoci, non ogni disegno inciso sulla pelle è automaticamente protetto dal Diritto d’Autore. Se si sceglie un motivo standard, prelevato da un catalogo anonimo o trovato in rete con una ricerca Google® da tre secondi, è assai probabile che ci si trovi di fronte a un’opera priva del requisito dell’originalità, e quindi non suscettibile di tutela.

La legge sul Diritto d’Autore, in questo senso, parla chiaro: vengono protette le opere dell’ingegno che presentino carattere creativo (art. 1, L. 633/1941), e – per esempio – il disegno stilizzato di un delfino, privo di caratterizzazioni grafiche di sorta e virtualmente identico a quello che decine di persone potrebbero aver tatuato, difficilmente potrà essere qualificato come “originale”.

Autore, committente e consenso a favore di terzi

Dove le cose si complicano (e si fanno giuridicamente interessanti), è nel momento in cui un soggetto terzo – magari una casa di produzione cinematografica, una software house di videogiochi o una società di abbigliamento – decide di riprodurre il tatuaggio per fini commerciali senza il consenso dell’autore (ma con l’autorizzazione, esplicita o implicita, della persona tatuata). È qui che diventa protagonista la dicotomia tra diritto morale e diritto patrimoniale, tra il legame intimo che l’artista mantiene con la propria creazione e il potere esclusivo di autorizzarne l’utilizzo, la distribuzione, la riproduzione. Non mancano i casi pratici.

NBA, videogiochi e tatuaggi: un caso reale

Uno dei precedenti più emblematici resta senz’altro quello che venne deciso dalla U.S. District Court – Southern District of New York nel 2020 (caso Solid Oak Sketches, LLC vs. 2K Games, Inc. e Take Two Entertainment), in cui l’oggetto del contendere furono proprio i tatuaggi riprodotti fedelmente sui corpi digitali di alcuni giocatori NBA all’interno di un videogioco sportivo.

In quel caso, la Corte ha optato per un approccio sfumato, forse – potrebbe obiettare qualcuno – non rigoroso al 100% dal punto di vista giuridico, valutando l’entità minima della riproduzione (gli avatar mostravano i tatuaggi in scala ridotta; il problema coinvolgeva solo 3 giocatori su 400; i tatuaggi sembravano riprodotti con funzione prettamente identificativa/rappresentativa e non venivano mostrati nelle azioni di gioco; non sembravano potessero esserci ripercussioni negative sul business del tatuatore), e concludendo per la sussistenza del così detto “fair use” da parte degli sviluppatori.

Insomma, nessun “game over” per i produttori del videogioco. Ma il precedente resta, e ci ricorda che il confine tra lecito e illecito – in questo campo – è sottile e ancora in gran parte da esplorare.

Non solo Intellectual Property: LaMelo Ball e il tatuaggio proibito (poi riabilitato)

Ancora nel mondo della pallacanestro americana, un altro episodio – quasi surreale – ha riacceso i riflettori sul tema, questa volta sotto il profilo contrattuale: si tratta del caso che ha visto protagonista l’atleta LaMelo Ball, cui la NBA ha inizialmente imposto di coprire un tatuaggio con le lettere “LF”, sospettato di essere il logo della linea di abbigliamento del giovane talento statunitense.

Qui, il tema giuridico si sposta dalla proprietà intellettuale al delicato equilibrio tra libertà di espressione (anche attraverso il proprio corpo) e regolamenti sportivi: il Contratto Collettivo di Lavoro della NBA (NBA Collective Bargaining Agreement) vieta infatti l’esposizione di marchi commerciali durante le partite, anche se questi siano incisi… sulla pelle degli atleti.

Alla fine, il tatuaggio è rimasto visibile (poiché la NBA ha ritenuto dirimente in favore del giocatore il fatto che il tatuaggio fosse stato realizzato ben prima di diventare un marchio d’impresa), ma la vicenda è emblematica: oggi, persino la pelle diventa uno spazio di comunicazione commerciale e – come tale – c’è chi vuole regolamentarne l’esposizione.

Un equilibrio (ancora instabile) tra autore e portatore

In conclusione, il tatuaggio si rivela un ibrido sui generis tra opera protetta dal Diritto d’Autore e bene incorporato nella persona. Un’opera che esiste perché è disegnata, ma che “vive” sulla pelle di qualcuno. E se da un lato è giusto che all’autore sia riconosciuto il frutto della propria creatività, dall’altro è innegabile che la persona tatuata debba conservare – almeno a parere di chi scrive – la massima autonomia possibile sul proprio corpo, comprese le sue espressioni permanenti.

L’auspicio, da giurista e da osservatore curioso, è che il diritto riesca a evolversi e garantire il giusto equilibrio fra i vari (e personalissimi!) interessi coinvolti.

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Data di pubblicazione: 14 Luglio 2025

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Avv. Daniele Camaiora

Daniele Camaiora

Senior Partner dello studio legale Canella Camaiora, iscritto all’Ordine degli Avvocati di Milano e Cassazionista, appassionato di Nuove Tecnologie, Cinema e Street Art.

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