Etichettatura volontaria: quando (non) si possono usare i claim nutrizionali e salutistici

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Abstract

“Fonte di proteine”, “senza zuccheri aggiunti”, “riduce il colesterolo”: i claim nutrizionali e salutistici influenzano profondamente le scelte d’acquisto dei consumatori e il posizionamento dei prodotti alimentari sul mercato. Ma quando possono essere utilizzati legalmente? Quali sono le condizioni stabilite dal Regolamento (CE) n. 1924/2006 e cosa comporta davvero l’approvazione EFSA? Tra opportunità di marketing e obblighi di legge, comprendere i limiti e le potenzialità dell’etichettatura volontaria è oggi essenziale non solo per chi comunica, ma anche per chi produce, distribuisce e acquista. Perché ogni parola scritta sull’etichetta alimentare è una promessa che deve essere mantenuta e dimostrata.

Etichettatura volontaria: una promessa da mantenere

C’è una sottile differenza tra informare e persuadere, tra descrivere un prodotto e prometterne i benefici. Nell’etichettatura alimentare, questa differenza non è solo linguistica o grafica: è giuridica, regolata e sanzionabile.

Nel lessico del consumatore moderno, espressioni come “fonte di proteine”, “ricco di omega-3” o “aiuta a ridurre il colesterolo” sono percepite come segnali di qualità e salubrità. Il loro potere evocativo non si limita al linguaggio: incide sulla scelta d’acquisto, sulla comunicazione commerciale e, in ultima istanza, sulla reputazione dell’azienda.

È in questo contesto che si colloca l’etichettatura volontaria: non obbligatoria per legge, ma vincolata alla legge. In particolare, a partire dal Regolamento (CE) n. 1924/2006, che disciplina l’uso delle indicazioni nutrizionali e sulla salute fornite sui prodotti alimentari. Un corpus normativo che affianca, e non sostituisce, gli obblighi informativi del Regolamento (UE) n. 1169/2011.

Se infatti è obbligatorio dichiarare valori come l’energia o i grassi saturi, è invece facoltativo vantare che quel prodotto è “a basso contenuto di grassi”. Ma proprio perché volontaria, l’indicazione deve rispettare condizioni stringenti: scientifiche, legali e comunicative. Pena non solo l’illiceità dell’etichetta, ma anche l’applicazione di sanzioni amministrative, azioni dell’AGCM o, in certi casi, responsabilità penale (cfr. Dicitura obbligatoria o pratica commerciale? L’etichettatura tra trasparenza e responsabilità legale).

In quest’articolo analizziamo cosa si può dire, cosa no e a quali condizioni, quando si sceglie di utilizzare un claim nutrizionale o salutistico su un prodotto alimentare. Perché, in un’epoca in cui l’alimentazione è sempre più parte di una strategia di salute pubblica e branding d’impresa, le parole contano. E quando sono stampate su un’etichetta, valgono più di una promessa.

Claim nutrizionali e salutistici: cosa sono e quando si possono usare

L’etichettatura volontaria è una forma di comunicazione giuridicamente rilevante. Quando un operatore del settore alimentare decide di riportare sul packaging o in pubblicità frasi come “fonte di fibre”, “senza zuccheri aggiunti” o “riduce il colesterolo”, si assume una responsabilità diretta rispetto alla correttezza, alla trasparenza e alla veridicità dell’informazione.

Secondo l’articolo 2 del Regolamento (CE) n. 1924/2006:

  • per indicazione nutrizionale si intende qualsiasi messaggio che affermi, suggerisca o sottintenda che un alimento possiede particolari proprietà nutrizionali, per esempio in riferimento all’energia (valore calorico), ai nutrienti o ad altre sostanze contenute;
  • per indicazione sulla salute si intende qualsiasi messaggio che suggerisca una relazione tra una sostanza presente nell’alimento e la salute dell’organismo.

Le indicazioni nutrizionali e salutistiche non sono obbligatorie, ma quando vengono utilizzate devono rispettare con rigore le condizioni poste dal Regolamento, nonché dagli atti attuativi successivi (si veda anche Oltre il QUID: come un’etichetta alimentare precisa protegge l’azienda e ispira fiducia).

 

Indicazioni nutrizionali

Le indicazioni nutrizionali sono ammesse solo se rientrano tra quelle espressamente autorizzate nell’Allegato del Regolamento (CE) n. 1924/2006, aggiornato dai Regolamenti (UE) n. 116/2010 e 1047/2012. Alcuni esempi ammessi:

  • “fonte di fibre”, se l’alimento contiene almeno 3 grammi di fibra per 100 grammi o almeno 1,5 grammi per 100 kcal;
  • “ricco in acidi grassi omega-3”, se l’alimento fornisce almeno 0,6 grammi di acido alfa-linolenico (ALA), oppure almeno 80 mg di EPA e DHA per 100 grammi e per 100 kcal;
  • “senza zuccheri aggiunti”, se non è stato aggiunto nessuno zucchero semplice o disaccaride e se l’alimento non contiene altri ingredienti dolcificanti.

 

Indicazioni sulla salute

Le indicazioni salutistiche possono essere utilizzate solo se previamente autorizzate dalla Commissione Europea e inserite nell’elenco comunitario previsto dall’articolo 13, paragrafo 3, del Regolamento. Il parere scientifico necessario per ottenere tale autorizzazione è affidato all’EFSA, che valuta l’esistenza di una relazione causa-effetto tra sostanza e beneficio dichiarato.

Esempi di claim salutistici autorizzati:

  • “il calcio contribuisce al mantenimento di ossa normali”;
  • “i beta-glucani dell’avena contribuiscono al mantenimento di livelli normali di colesterolo nel sangue”, a condizione che il prodotto apporti almeno 3 grammi di beta-glucani al giorno;
  • “la vitamina C contribuisce al normale funzionamento del sistema immunitario”.

L’uso di questi claim è subordinato al rispetto di precise condizioni d’uso: quantità minime, forme biodisponibili, modalità di assunzione indicate in etichetta e avvertenze obbligatorie.

 

Claim vietati, impliciti e generici

È vietato attribuire agli alimenti proprietà di prevenzione, trattamento o cura delle malattie umane. È altresì vietato utilizzare claim salutistici non autorizzati, anche se verosimili.

Particolare attenzione va posta all’uso di claim impliciti o generici. Frasi come “per il tuo cuore”, “rafforza le difese” o “favorisce il benessere” possono essere considerate ingannevoli, a meno che non siano accompagnate da una specifica indicazione autorizzata, formulata esattamente come previsto nel Registro europeo.

Infine, i cosiddetti descrittori generici (es. “tonico”, “digestivo”, “ricostituente”) possono essere utilizzati solo se approvati dalla Commissione secondo la procedura prevista dal Regolamento (UE) n. 907/2013, e solo se storicamente consolidati e non suscettibili di inganno per il consumatore (cfr. Etichette, norme e branding: la terminologia come asset per le imprese food-tech).

L’autorizzazione scientifica: Il ruolo dell’EFSA e della Commissione Europea

In Europa, nessun claim sulla salute può essere utilizzato se non è stato valutato scientificamente e approvato formalmente. L’autorizzazione delle indicazioni salutistiche è infatti subordinata a una procedura specifica, fondata su criteri di rigore metodologico, validazione biochimica e trasparenza informativa, che coinvolge in prima istanza l’Autorità europea per la sicurezza alimentare (EFSA).

La procedura di autorizzazione è disciplinata dagli articoli 15, 16 e 17 del Regolamento (CE) n. 1924/2006. Può riguardare:

  • i claim di riduzione del rischio di malattia (es. “riduce i livelli di colesterolo”, art. 14, par. 1, lett. a);
  • i claim relativi alla salute e allo sviluppo dei bambini (art. 14, par. 1, lett. b);
  • oppure i cosiddetti nuovi claim, basati su evidenze scientifiche nuove o su dati non comunemente noti (art. 13, par. 5).

L’iter inizia con una domanda da parte dell’operatore del settore alimentare presso lo Stato membro competente. Lo Stato membro effettua una prima verifica formale della domanda e la trasmette all’EFSA, che ha il compito di esprimere un parere scientifico sull’effettiva esistenza di una relazione causa-effetto tra la sostanza indicata e il beneficio rivendicato.

Il parere dell’EFSA, pur non vincolante, è determinante: se positivo, la Commissione avvia la fase finale con consultazione degli Stati membri e adozione dell’atto che autorizza l’indicazione, inserendola nel Registro UE.

La valutazione dell’EFSA deve avvenire entro cinque mesi dalla ricezione della domanda (art. 16), salvo sospensioni per richiesta di chiarimenti. L’intero processo, dalla presentazione all’autorizzazione definitiva, può durare da sei a dodici mesi, in base alla complessità e alla qualità della documentazione scientifica presentata.

L’articolo 21 del Regolamento prevede inoltre una forma di tutela dei dati riservati per un periodo massimo di cinque anni, nei casi in cui l’autorizzazione si fondi su studi scientifici esclusivi del richiedente.

 

Quando l’EFSA dice no: il caso Cholesternorm®mix

La pubblicazione scientifica non è sufficiente. Lo dimostra il caso del prodotto Cholesternorm®mix, per il quale l’EFSA, nel 2012, ha rigettato il claim “contribuisce alla riduzione del colesterolo LDL” poiché:

  • gli studi clinici presentavano debolezze metodologiche (assenza di randomizzazione chiara, mancanza di analisi intent-to-treat);
  • la dose proposta era inferiore ai livelli già validati per altre sostanze simili;
  • il gruppo di controllo non era correttamente selezionato;
  • mancava una revisione sistematica della letteratura disponibile.

La valutazione EFSA ha quindi concluso che non era stata dimostrata l’esistenza di una relazione causa-effetto, negando l’autorizzazione.

 

Claim approvati: esempi virtuosi

Al contrario, claim come “i beta-glucani dell’avena contribuiscono al mantenimento dei livelli normali di colesterolo” sono stati autorizzati in quanto supportati da:

  • studi clinici indipendenti,
  • coerenza con le linee guida nutrizionali europee,
  • dosaggi minimi chiaramente definiti (3 g di beta-glucani al giorno),
  • trasparenza nei metodi e ripetibilità dei risultati.

L’autorizzazione di un claim salutistico è dunque un percorso scientifico, giuridico e strategico che non ammette scorciatoie. Il solo fatto che una sostanza sia benefica, o che sia stata oggetto di pubblicazioni favorevoli, non legittima il suo uso commerciale come claim: serve una valutazione rigorosa, un dossier completo e una conformità piena ai criteri EFSA.

Il claim può trasformarsi in rischio

Nel momento in cui un’impresa decide di apporre un claim nutrizionale o salutistico sull’etichetta di un alimento, o di utilizzarlo in comunicazioni commerciali rivolte al pubblico o ad altri operatori, assume una responsabilità diretta e oggettiva. L’uso scorretto, incompleto, fuorviante o semplicemente non autorizzato di tali indicazioni non rappresenta un’infrazione minore: può dar luogo a sanzioni amministrative, procedimenti dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato e – nei casi più gravi – a conseguenze penali.

Il Decreto Legislativo 7 febbraio 2017, n. 27 ha introdotto in Italia la disciplina sanzionatoria applicabile in caso di violazioni al Regolamento (CE) n. 1924/2006. Le sanzioni previste variano in base alla tipologia di infrazione. L’utilizzo di un claim salutistico non autorizzato comporta una sanzione da 6.000 a 24.000 euro. L’utilizzo di un claim autorizzato ma privo delle condizioni d’uso previste (come la quantità minima della sostanza, le avvertenze obbligatorie o le diciture integrative previste all’articolo 10, paragrafo 2 del Regolamento) è punito con una sanzione da 3.000 a 12.000 euro. L’utilizzo scorretto di claim impliciti, generalizzazioni o claim che suggeriscono effetti terapeutici può determinare una sanzione fino a 40.000 euro.

A queste si aggiungono i profili di responsabilità previsti dal Codice del Consumo (Decreto Legislativo 206/2005), che vieta ogni pratica commerciale ingannevole, aggressiva o omissiva, e attribuisce all’AGCM il potere di intervenire anche in assenza di una violazione formale del Regolamento europeo. Se il claim, anche autorizzato, è utilizzato in modo tale da risultare ingannevole nella percezione del consumatore medio, l’Autorità può ordinare la cessazione della comunicazione, l’adeguamento dell’etichetta e l’irrogazione di sanzioni fino a 5 milioni di euro. La responsabilità può riguardare non solo il produttore, ma anche l’importatore, il distributore e chiunque tragga beneficio dalla diffusione della pratica (si veda Etichette alimentari: quello che (quasi) nessuno legge ma tutti dovrebbero conoscere).

Particolare attenzione deve essere posta anche all’ambito business-to-business. Il Decreto Legislativo 2 agosto 2007, n. 145 vieta la pubblicità ingannevole e sleale tra professionisti, applicandosi a comunicazioni rivolte a distributori, rivenditori o altri operatori del settore. Un claim comparativo che alluda, esplicitamente o implicitamente, alla superiorità di un prodotto rispetto ad altri, se non supportato da dati oggettivi e verificabili, può determinare l’avvio di un procedimento per concorrenza sleale, con conseguenze reputazionali, contrattuali e commerciali.

La Legge 30 aprile 1962, n. 283, tuttora in vigore per i profili igienico-sanitari, vieta ogni messaggio che attribuisca agli alimenti proprietà preventive, curative o terapeutiche. La violazione può integrare un illecito penale, con pena dell’arresto o dell’ammenda, e obbligo di pubblicazione della sentenza. In questi casi, non si tratta più di una mera violazione formale, ma di un’attività potenzialmente lesiva della salute pubblica.

Infine, non va trascurata l’efficacia del sistema di autodisciplina pubblicitaria. Il Codice di Autodisciplina della Comunicazione Commerciale, adottato su base volontaria, impone il rispetto di criteri di verità, correttezza e trasparenza. L’articolo 23-bis vieta ogni riferimento a effetti salutistici che non sia adeguatamente provato, e vieta espressamente immagini e messaggi che possano indurre aspettative infondate, soprattutto nei settori degli integratori, dei prodotti dietetici e dell’alimentazione funzionale. Il Giurì dell’Istituto può ordinare l’immediata cessazione del messaggio e la diffusione di una nota rettificativa.

Per un approfondimento sui controlli ufficiali, sulle prassi ispettive e sul ruolo delle autorità nazionali ed europee nella gestione della sicurezza e dell’informazione alimentare, si veda anche l’articolo dedicato alla regolazione europea tra HACCP e nuovi alimenti, Dal HACCP alla carne coltivata: come l’UE regola la sicurezza alimentare.

Le imprese che comunicano in modo scorretto non solo rischiano multe e procedimenti, ma compromettono la propria affidabilità sul mercato. Il claim è, a tutti gli effetti, una dichiarazione pubblica. E come ogni dichiarazione che incide sul comportamento di acquisto, deve essere fondata, verificabile e trasparente. In caso contrario, il danno economico è solo una delle possibili conseguenze. Il rischio reputazionale, per un operatore della filiera alimentare, è altrettanto concreto.

Oltre la conformità: il valore strategico del claim

Un claim conforme alla normativa non è solo una garanzia di legalità. È, prima ancora, una dichiarazione di affidabilità, un indice di qualità e una leva strategica per posizionarsi in un mercato alimentare sempre più attento alla salute, alla trasparenza e alla sostenibilità. In un sistema normativo europeo fondato sulla protezione del consumatore e sulla responsabilità dell’operatore del settore alimentare, ogni parola stampata in etichetta o utilizzata nella promozione commerciale ha un valore che va ben oltre il marketing.

Un claim ben costruito, scientificamente fondato, giuridicamente corretto e comunicato in modo trasparente contribuisce a costruire reputazione, fidelizzazione, valore percepito. Agisce come un segnale di competenza e di rigore, distinguendo chi investe nella qualità reale del prodotto da chi fa leva su formule ambigue, allusive o ingannevoli. In questo senso, la conformità non rappresenta un vincolo: è un vantaggio competitivo.

In ottica One Health, la diffusione di indicazioni corrette, responsabili e verificate contribuisce non solo alla tutela del singolo consumatore, ma anche alla salute pubblica nel suo complesso (si veda anche Biotecnologia, sicurezza e investimenti a livello globale: cosa mangeremo nel 2030?). I claim approvati dalla Commissione Europea e supportati da pareri positivi dell’EFSA riflettono un equilibrio fra beneficio nutrizionale, evidenza scientifica e trasparenza comunicativa: un equilibrio che, se rispettato, rafforza anche l’integrità del marchio e la solidità delle relazioni commerciali.

Inoltre, dal punto di vista della proprietà intellettuale, l’investimento in un dossier scientifico per l’autorizzazione di un claim può generare un vantaggio esclusivo per cinque anni, in base all’articolo 21 del Regolamento (CE) n. 1924/2006. Non si tratta solo di comunicare legalmente: si tratta di costruire valore, differenziarsi sul mercato, proteggere un patrimonio immateriale che passa anche attraverso la credibilità dell’etichetta.

La domanda che ogni operatore dovrebbe porsi è dunque semplice: il claim che sto usando è effettivamente supportato da dati scientifici? Rispetta tutte le condizioni d’uso previste? Comunica in modo trasparente o rischia di generare un fraintendimento?

Se la risposta a queste domande non è chiara, il rischio non è solo normativo. È reputazionale, commerciale, talvolta sistemico. E allora, in un contesto normativo articolato, scientificamente vigilato e sempre più trasparente, la vera domanda diventa: il tuo claim resisterebbe a un controllo ufficiale?

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Data di pubblicazione: 3 Agosto 2025
Ultimo aggiornamento: 8 Agosto 2025

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Carlo Bobbiesi

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